martedì 2 gennaio 2018

Soldati italiani in Niger: una scelta neocoloniale per scaricare sull’Africa il dramma dell’immigrazione



di Emilio Drudi

Sono stati scelti i parà della Folgore, un reparto d’élite, per il primo contingente militare italiano da inviare in Niger, dove sono già operative basi francesi, americane e tedesche. Quasi 500 uomini con 130 veicoli e il rinforzo di squadriglie di elicotteri da assalto. La stampa locale ne parla da almeno un mese. Il premier Paolo Gentiloni lo ha annunciato ufficialmente la vigilia di Natale e il Consiglio dei Ministri si è affrettato a dare il suo assenso il 29 dicembre, nell’ultima riunione del 2017. L’obiettivo dichiarato è la lotta ai trafficanti di uomini e ai gruppi di terroristi che traggono vantaggio e grosse fonti di finanziamento dal “mercato” che alimenta l’immigrazione clandestina. In questo contesto, i soldati italiani – a quanto si afferma – non sarebbero “truppe combattenti” in un teatro di guerra e non dovrebbero far uso delle armi se non per difendersi. Il loro compito, tuttavia, non sarà solo quello di istruttori e “consiglieri”, per addestrare e rendere più efficienti le truppe nigerine: saranno schierati nel nord del paese, per “stabilizzare” e presidiare la regione attraversata dalle piste che portano in Libia e in Algeria. Il che, fuori dalla cortina fumogena e dall’ipocrisia della politica, significa che il mandato vero sia quello di blindare il confine tra la Libia e il Niger, bloccando i migranti in pieno Sahara, lontanissimi dalla possibilità di imbarcarsi e di raggiungere l’Europa, e chiudendo così la via di fuga percorsa, negli ultimi anni, da quasi il 90 per cento dei rifugiati subsahariani che sono riusciti a raggiungere la sponda del Mediterraneo tra il porto di Homs, Tripoli e la frontiera fra la Tripolitania e la Tunisia.
Niente di nuovo, in  realtà, rispetto alla politica di chiusura e respingimento adottata in questi anni dalla Ue e dall’Italia, se non che, in questo caso, l’azione dei militari italiani sarà molto più diretta. Quello di blindare il Sahara, insieme al Mediterraneo, è un programma che viene da lontano. Ha mosso i primi passi con gli accordi tra il governo Berlusconi e Gheddafi. Già allora l’Italia si impegnò a fornire mezzi e materiale tecnico per chiudere non solo le rotte marittime ma anche la frontiera libica meridionale. Incluso un avanzato sistema di rilevamento radar, costato 300 milioni, da installare lungo i 5 mila chilometri di confine nel deserto: lo ha ricordato circa due anni fa, in una lunga intervista rilasciata al quotidiano Il Tempo, Pierfrancesco Guarguaglini, l’ex presidente di Finmeccanica, la società che costruì l’impianto, dopo una serie di rilievi sul posto per tararne l’operatività: “Basterebbe attivarlo – sosteneva Guarguaglini – e gran parte dei problemi (di vigilanza ai confini: ndr) sarebbero risolti, ma attualmente parte è imballato in un deposito a Bengasi e parte non è mai partito dall’Italia, perché tutto si bloccò con la caduta di Gheddafi”. Ne consegue che i blindati, i fuoristrada, i visori notturni promessi già da allora alla Libia dovevano servire, evidentemente, oltre alle normali operazioni di pattuglia, per intervenire rapidamente nei punti di allerta segnalati dalla rete radar lungo la frontiera.
Con i governi Monti (2012) e Letta (2013), del radar di Finmeccanica non si è più parlato. Non in via ufficiale, comunque. Ma gli impegni di “forniture” anche terrestri presi in precedenza con Gheddafi sono stati ampiamente rinnovati e ribaditi a favore della “nuova Libia”. Sempre con l’obiettivo di delegare a Tripoli il compito di impedire ai migranti di arrivare in Europa. Poi, il Processo di Khartoum, l’accordo per il controllo dell’immigrazione mutuato dal Processo di Rabat e firmato a Roma il 24 novembre 2014, con il governo Renzi, ha messo tutto a sistema, coinvolgendo, insieme alla Libia, altri nove Stati del versante orientale dell’Africa. Il memorandum sottoscritto tra Roma e Tripoli il 2 febbraio 2017 non è altro che uno dei patti bilaterali, anzi, il più importante dei patti bilaterali siglati dall’Italia, per attuare in  concreto le “barriere” previste dal Processo di Khartoum. L’invio del contingente militare in Niger ne è una conseguenza diretta: l’ultima tappa di un percorso nato con l’impegno di garantire fondi, mezzi, addestramento, materiale logistico, supporto tecnico e “consiglieri militari”, sia alla Guardia Costiera che alla polizia di frontiera libica. Nel corso del 2017 questo impegno nei confronti della Libia è stato portato a un punto molto avanzato. Il controllo del Mediterraneo è ormai quasi totalmente delegato alla Marina di Tripoli, senza porsi minimamente il problema della sorte che attende i migranti intercettati in mare e riconsegnati a quegli autentici lager che sono i centri di detenzione libici, come testimoniano numerosi rapporti delle Nazioni Unite, dell’Oim, delle principali Ong e associazioni umanitarie. A terra sta accadendo lo stesso. Oltre alla fornitura di materiali, nel mese di giugno 2017 si è raggiunto l’accordo per istituire una commissione per il controllo del confine sud, in pieno Sahara, formata dalla polizia libica e da militari italiani. In Italia non se ne è parlato, ma la stampa libica ha dato molto rilievo a questa intesa, paragonandola, per importanza, operatività e sostegno logistico, a quella che ha consegnato il Mediterraneo alla Guardia Costiera di Tripoli. E a questa intesa è seguito, a maggiore garanzia della “blindatura” della linea di frontiera, l’accordo sottoscritto al Viminale con le tribù libiche del Fezzan, in particolare i Tebu, perché a loro volta contribuiscano, dietro compenso, a chiudere le piste che, attraverso il Sahara, arrivano dal Sudan, dal Ciad e dal Niger.
Tutto lascia pensare, allora, che l’invio del contingente militare italiano in Niger rientri nell’ultima fase di questo programma: blindare il deserto anche a sud della Libia. In Sudan questo compito è affidato alla Forza di Intervento Rapido, i miliziani noti come “diavoli a cavallo” per gli eccidi commessi in Darfur. Il presidente Al Bashir li ha trasferiti in buona parte nel nord del paese, proprio per garantire l’attuazione degli impegni presi firmando il Processo di Khartoum e, da circa due anni, arresti, retate, deportazioni, espulsioni hanno reso estremamente più difficile questa via di fuga, fin quasi a chiuderla. Con il Ciad e il Niger, dove la frontiera è molto più “porosa”, le trattative si sono concretizzate in particolare nel mese di maggio 2017, dopo un incontro al Viminale (al quale ha partecipato anche Tripoli) conclusosi con l’intesa di “potenziare la sicurezza” e i controlli sul confine libico, in entrambi i paesi, con una rete interforze, oltre che di prevedere grossi hub di accoglienza per i migranti.
In Niger, insomma, anziché su una delega totale come quella accordata al Sudan, si è puntato, a quanto pare, su un intervento più diretto. Più diretto anche della commissione mista concordata con Tripoli per l’altro versante del confine, come dimostra, appunto, la decisione di inviare nel paese un consistente contingente di truppe d’élite. A dettare questa scelta potrebbe essere stato, verosimilmente, il fatto che non si tratta solo di vigilare su una linea di frontiera, ma di controllare e bloccare le strade e le piste che, partendo dal nodo di Agadez, si diramano per centinaia di chilometri, nel deserto, verso la Libia e magari l’Algeria. In sostanza, lo stesso “lavoro” svolto in Sudan dalla Forza di Intervento Rapido. Un “lavoro” che, oltre tutto, potrebbe svolgersi in un clima di ostilità e diffidenza da parte della popolazione, dalla quale arrivano da tempo continui, crescenti segnali di insofferenza contro la presenza di presidi di truppe occidentali.
Nel paese già sono operative numerose basi militari. La Francia ne conta quattro: a Niamey, la capitale; ad Aguelal e a Madama, in pieno Sahara, la prima non troppo distante dalla frontiera algerina e la seconda da quella libica; e a Diffa, nel sud. In totale, secondo il giornale francese La Depeche, oltre 4 mila uomini. Cinque le basi americane, una delle quali ospita il comando e la più importante sede operativa per l’impiego dei droni di tutta l’Africa: a Niamey, ad Agadez, ad Aguelal, a Zinder e a Dirkou, con una guarnigione complessiva di oltre 900 soldati, tutte truppe scelte, come i “berretti verdi”. Si sono aggiunti, più di recente, reparti inviati dalla Germania: la principale base tedesca è a Niamey, ma c’è un distaccamento anche a Diffa, insieme ai francesi. Il governo nigerino insiste che questa presenza è essenziale per la sicurezza del paese e dell’intera regione. “La nostra sovranità non è in discussione: si tratta solo di una cooperazione per una difesa comune. Basti ricordare il ruolo di primo piano che hanno avuto i nostri partner stranieri per la liberazione del Mali”, ha dichiarato anche di recente il ministro della difesa, Kalla Moutari, in un dibattito promosso da un sito di informazione. Secondo un’inchiesta condotta dal Gruppo di ricerca e d’informazione sulla pace e la sicurezza (Grip), però, la maggioranza del paese è su tutt’altre posizioni. “Numerose organizzazioni della società civile e anche molti esponenti politici – scrive Nigerdiaspora commentando  l’inchiesta – sono contrari alla presenza delle basi militari straniere”. Particolarmente critico, ma ampiamente condiviso, il giudizio di Dambadjii Son Allah, presidente della Coalizione per la difesa della democrazia e dello Stato di diritto: “Non abbiamo bisogno di forze straniere per la nostra sicurezza. Se ci vogliono aiutare, chiediamo solo forniture adeguate per le nostre forze armate”.
Questa ostilità – rileva il Grip – è particolarmente forte e sentita nei confronti della Francia, accusata di perseguire una politica neocoloniale, ma lo è quasi altrettanto nei riguardi degli Stati Uniti. La contestazione si manifesta generalmente attraverso l’azione politica e iniziative pacifiche. Ma offre il destro ai gruppi fondamentalisti anche per una lotta armata, con attentati, attacchi improvvisi, agguati. Non più tardi di tre mesi fa, il 4 ottobre 2017, quattro “berretti verdi” americani e cinque soldati nigerini sono stati uccisi in un’imboscata a Tongo Tongo, nella regione di Diffa, nel sud. L’attacco – rivendicato da Boko Haram, il gruppo nigeriano aderente all’Isis – è stato condotto da una grossa formazione armata infiltrata dal Mali, ma che ha potuto contare, a quanto pare, su diffuse complicità locali e successivamente, quando è scattata la caccia ai terroristi, su una ostinata omertà tra la popolazione e anche tra vari capi tribali ed esponenti delle autorità del posto.   
E’ questo il contesto in cui andrà a operare il contingente militare italiano. Non c’è da aspettarsi, insomma, che la Folgore sia accolta con amicizia. Al contrario: sottoposta, oltre tutto, al comando generale francese, rischia di essere avvertita, dalla gente, come una nuova, indesiderata e sgradita forza straniera: una ingerenza di tipo neocoloniale, al pari dei reparti inviati in Niger dalla Francia, dagli Stati Uniti e dalla Germania. Non solo. Come dimostra l’agguato di Tongo Tongo, seguito da numerosi altri sanguinosi attacchi che hanno costretto a dichiarare lo stato d’emergenza nella zona di Diffa, il Niger è al centro di una regione dove è fortissima l’attività dei gruppi terroristi. Secondo diversi osservatori, anzi, tutta la vasta area del Sahel compresa tra il Sudan, il Ciad, il sud della Libia, il Niger e il Mali, rischia di diventare il fulcro per la diffusione del fondamentalismo islamico in Africa. Sembra confermare questa analisi la crescente attività di Boko Haram in Nigeria e, in Mali, di frange legate all’Isis oppure di Aqim (Al Qaeda per l’Islam nel Maghreb), con un’espansione sempre più evidente negli Stati vicini, a cominciare proprio dal Niger e dalla tormentata area del Lago Ciad. Non a caso, per fronteggiare questa offensiva fondamentalista, nel febbraio 2014 si è costituito il G-5 del Sahel, un organismo di cooperazione politica e militare per la sicurezza, che coinvolge cinque Stati subsahariani: la Mauritania, il Mali, il Burkina Faso, il Ciad e lo stesso Niger.
Creare barriere nel Sahara e intrappolare in questa realtà migliaia di disperati – mettendoli nella condizione di non potere né proseguire la fuga a cui sono stati costretti dal loro paese, né tornare indietro – può offrire linfa e impulso proprio alla minaccia del terrorismo che tutti dicono di voler combattere. Questa è la situazione che troveranno i soldati italiani in Niger. Allora bisognerebbe avere almeno la dignità e il coraggio di dirlo. Altroché missione per contrastare i flussi clandestini di migranti e combattere i trafficanti di uomini, ponendo fine a quel turpe, disumano mercato che alimenta anche le finanze del terrorismo. La politica di fondo resta quella di esternalizzare in Africa, il più a sud possibile, le frontiere della Fortezza Europa. A prescindere dalla sorte e dai diritti dei rifugiati e del “popolo migrante” e senza tener conto dei pesanti contraccolpi ai quali rischia di essere esposta tutta la fascia subsahariana. E allora è difficile non dare credito ai tanti, sempre di più, che accusano l’Europa di ipocrisia e cinismo: di voler scaricare soltanto sulle spalle dell’Africa il peso enorme, crescente della tragedia dell’immigrazione.

Da Tempi Moderni

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