martedì 3 gennaio 2017

Espulsioni e Cie: lettera appello al ministro Minniti





Gentile ministro,

viene da pensare che lei abbia subito e perfettamente sposato, anzi, accentuato, la politica di respingimento adottata finora dall’Unione Europea e dall’Italia nei confronti dei richiedenti asilo e dei migranti. Non ci può essere altra conclusione a giudicare dalle decisioni che, annunciando una “stagione di tolleranza zero”, ha preso il 30 dicembre – in chiusura dell’anno, quasi a sottolinearne l’urgenza – di riaprire e moltiplicare i centri di espulsione (Cie) e di allontanare dal Paese gli stranieri “irregolari”.
Stando a quanto ha riferito la stampa, il provvedimento è già operativo, come si evince dalla circolare con cui il capo della polizia, il prefetto Gabrielli, ha impartito le disposizioni per “conferire il massimo impulso all’attività di rintraccio dei cittadini dei Paesi terzi” in vista, appunto, dell’espulsione. Non si tratterebbe – hanno spiegato, secondo i media, fonti del Viminale – di aumentare semplicemente “la pressione della polizia” ma, in sostanza, di “gestire” il problema, prendendo atto che “la strada che porta alla piena accoglienza e a politiche di inclusione dei migranti regolari non possa che passare necessariamente attraverso prassi di respingimento efficaci e credibili nei confronti degli irregolari”. In teoria, questo discorso non fa una piega: chi non ha diritto all’accoglienza non può restare. Ma in base a che cosa si stabilisce chi è “irregolare” e chi no?
E’ proprio qui il punto. Lei non ha detto una sola parola sui criteri per individuare chi ha diritto di restare. Meno che mai ha richiamato il diritto internazionale e la Convenzione di Ginevra: ovvero, il principio irrinunciabile che le richieste di asilo vengano esaminate caso per caso, tenendo conto delle storie individuali. Va da sé, allora, che si continuerà ad adottare la “scelta per nazionalità”, come si è fatto finora e come ha ribadito di recente Dimitris Avramopoulos, il commissario Ue per l’immigrazione. In sostanza, cioè, vengono accolti come rifugiati soltanto i siriani e gli eritrei. Tutti gli altri no. Dopo l’accordo-ricatto di qualche settimana fa, neanche gli afghani, perché Kabul è stata costretta ad accettare il rimpatrio di almeno 80 mila rifugiati in cambio di 3,5 miliardi di euro per lo sviluppo, un contributo promesso da tempo ma che sarebbe stato bloccato in caso di mancato accordo sul rientro dei profughi.
Allora – a parte la violazione palese del diritto internazionale che comporta questa scelta, configurando nei fatti vere e proprie espulsioni di massa indiscriminate – proviamo ad esaminare, tenendo fuori la Siria e l’Eritrea, la situazione dei paesi dai quali quest’anno è arrivato in Europa un gran numero di profughi: Nigeria, Gambia, Somalia, Mali, Sudan e Sud Sudan.
La Nigeria è sconvolta da circa dieci anni dalla rivolta dei ribelli jihadisti del gruppo di Boko Aram: oltre 17 mila morti e 2,6 milioni tra profughi oltreconfine e sfollati interni. E’ vero che, a fine dicembre 2016, il presidente Muhammadu Buhari ha annunciato la “vittoria finale” contro il movimento fondamentalista legato all’Isis, dopo la conquista della sua base nella foresta di Sambisa, ma annunci analoghi sono stati ripetutamente smentiti in passato e, del resto, proprio negli stessi giorni cellule jihadiste hanno messo a segno altri attentati con decine di vittime, mentre molti osservatori rilevano che anche senza la base di Sambisa il gruppo è fortemente radicato non solo nel nord est della Nigeria ma in alcuni stati vicini: Ciad, Niger, Camerun.
Nel Gambia il dittatore Yhaya Jammeh, al potere dal 1994, ha rifiutato di riconoscere la sconfitta elettorale di un mese fa ed è rimasto al suo posto, continuando a impedire con la violenza ogni forma di opposizione e a negare ogni forma di libertà: come denunciano da tempo tutte le più prestigiose Ong internazionali, carcerazioni illegali, sparizioni misteriose, torture, uccisioni sono la norma. La Somalia resta nel caos, in preda a una guerra civile fatta di attacchi mirati e attentati continui: una media di quasi mille l’anno: gli ultimi, all’aeroporto di Mogadiscio, proprio in questi giorni. Il Governo controlla a malapena la capitale e alcune grandi città: i guerriglieri ribelli di Al Shabaab, legati ad Al Qaeda, sono in piena offensiva e stanno occupando, uno dopo l’altro, tutti i centri urbani lasciati sguarniti dalle truppe etiopiche entrate dal 2006 nel paese su mandato dell’Unione Africana e ritirate ora da Addis Abeba per far fronte ai problemi interni sollevati dalla rivolta degli Oromo e dalla guerra nell’Ogaden.
Ancora. In Mali la guerra civile scoppiata nel 2012 con la rivolta tuareg nelle regioni del nord, l’Azawad, in realtà non è mai finita, nonostante l’intervento francese del 2013, ed ha assunto una connotazione sempre più fondamentalista, con milizie legate o all’Isis o ad Al Qaeda. I ribelli sembrano in grado di colpire ovunque, come dimostrano i continui attentati e attacchi contro l’esercito, le truppe francesi e quelle dell’Onu, ma anche contro obiettivi civili, nelle piccole come nelle grandi città, inclusa Bamako, la capitale. In Sudan continua la rivolta nella tormentata regione del Darfur e nel resto del Paese, sul finire del 2016, si sono moltiplicate anche le iniziative di protesta pacifiche delle forze di opposizione: se continueranno ad essere soffocate o anche solo a restare inascoltate, alla linea della non violenza sposata finora potrebbero subentrare sviluppi di tutt’altra natura. Il Sud Sudan, infine, è in preda alla guerra civile in pratica da sempre: è scoppiata nel 2013, poco più di un anno dopo la nascita dello Stato, e da allora ha conosciuto una escalation impressionante: decine di migliaia di vittime, oltre 2,5 milioni tra profughi e sfollati, di cui più di 350 mila soltanto negli ultimi sei mesi. E i più recenti rapporti dell’Onu parlano esplicitamente di “rischio di genocidio”: le milizie in campo, quelle governative e quelle ribelli, ammazzano ormai senza alcun motivo, semplicemente in base all’etnia di appartenenza.
Ha senso, allora, pensare che chi fugge da situazioni d’inferno come queste, nel momento stesso in cui mette piede in Italia, sia considerato un “irregolare” perché non ha la fortuna di essere di una certa nazionalità? A lei, signor ministro, la risposta.
Poi, il sistema di espulsione, con la moltiplicazione dei Cie. Verrebbe da dire i “famigerati Cie”, a giudicare da numerosi servizi giornalistici, dagli esposti di singoli operatori o di organizzazioni umanitarie. In particolare il rapporto Arcipelago Cie pubblicato nel 2013 da Medici per i Diritti Umani. Da allora non è cambiato nulla. Sulla scia di queste ed altre denunce, inclusi alcuni richiami dell’Unione Europea, si sarebbe dovuti arrivare alla chiusura. E molti Cie, in effetti, sono stati via via chiusi. Ora lei li riapre. Li riapre ed anzi, a quanto pare, li moltiplica. Moltiplica strutture che, negli anni, si sono rivelate delle prigioni illegali, dove gli “ospiti” non hanno neanche i diritti dei detenuti in un carcere “normale”, tanto che spesso l’unica maniera per far sentire la propria voce è stata quella di cucirsi la bocca. Sì, cucirsi materialmente la bocca per gridare che non era rimasto loro più nulla, neanche il diritto di parlare.
Infine, la meta dei respingimenti. Come evidenziato dall’analisi delle situazioni di crisi estrema da cui sono fuggiti la maggioranza dei profughi arrivati quest’anno in Italia, non ha senso, anzi, è inumano rimandarli nei paesi d’origine: sarebbe ignorare volutamente i rischi, spesso mortali, ai quali verrebbero consegnati. C’è da pensare, allora, che potrebbero essere respinti nei paesi di prima sosta o di transito che hanno attraversato prima di arrivare in Italia. In sostanza, inviati nei grandi hub per migranti che l’Unione Europea e l’Italia stanno cercando di aprire in Niger, in Libia o magari anche in Egitto, nel contesto di accordi internazionali come il Processo di Khartoum, i trattati di Malta o singoli patti bilaterali. Ma gli Stati africani prescelti sono tutt’altro che “sicuri”.
Su buona parte del Niger, ad esempio, appena sei mesi fa l’Onu ha dichiarato lo stato di “crisi umanitaria” per il gran numero di profughi e le violenze di gruppi jihadisti provenienti da oltre confine. E ci sono segnali crescenti che proprio il Niger, insieme al Mali, possa diventare nel Sahel la principale base per la rivolta fondamentalista in Africa. Quanto alla Libia, basti ricordare l’orrore dei centri di detenzione per profughi e migranti denunciato da numerosissimi rapporti di Amnesty, Human Right Watch, Medici Senza Frontiere ed altre Ong internazionali: violenze di ogni genere, torture, riduzione in schiavitù, stupri sistematici, uccisioni. Una ulteriore, terribile conferma è venuta, sul finire del 2016, da un dossier dell’Onu, che segnala senza mezzi termini anche la complicità di funzionari dello Stato con i trafficanti. E proprio in questi giorni segnalazioni di nuove violenze nei centri di raccolta sono giunte ad Habeshia, la nostra agenzia di assistenza, da diversi operatori presenti in Libia. Ma rapporti non meno allarmanti sono arrivati, sempre ad Habeshia e sempre in questi giorni, anche sul conto delle carceri egiziane, confermando che le celle sono piene di profughi trattati in modo disumano e ai quali viene in pratica negato anche il più elementare dei diritti.
Alla luce di tutto questo, c’è da chiedersi allora da cosa nasca e a che cosa miri questo annunciato giro di vite nei confronti dei richiedenti asilo e dei migranti. Nessuno nega che i controlli siano necessari e che vadano repressi e perseguiti i comportamenti illegali. Ma sono troppe le cose che non tornano nei provvedimenti annunciati per affrontare un problema complesso come quello dell’immigrazione. Il sospetto è che si sia voluta dare una risposta alla montante ondata populista che si ostina a vedere nello straniero, nel “diverso”, un nemico, alimentando una assurda, inaccettabile guerra tra poveri.
Viene da pensare, in altri termini, che di fronte a una catastrofe umanitaria senza precedenti come i milioni di profughi che continuano a registrarsi in tutto il mondo e in particolare nel bacino del Mediterraneo, il Viminale, abbia scelto di nuovo la via più semplice: scaricare tutto sui più deboli, i profughi stessi, senza ascoltarne la voce e senza rispettarne i diritti. La stessa via che ha prodotto in questi anni sofferenze inumane ed ha trasformato il nostro mare in un cimitero, con oltre 13 mila morti solo dal 2014 a oggi. Nella più perfetta continuità con la politica “emergenziale” e con la mentalità essenzialmente “securitaria” seguite finora – che tra l’altro hanno contribuito ad alimentare non di rado l’equazione immigrazione uguale terrorismo – e senza minimamente provare, invece, soluzioni alternative, certo non facili ma sicuramente percorribili.
L’unica, vera soluzione è senza dubbio quella di eliminare alla fonte, nei paesi d’origine, le cause che costringono tanti giovani a fuggire. Papa Francesco l’ha sintetizzata proprio all’inizio del suo pontificato quando, da Lampedusa, ha lanciato l’appello ai “potenti della terra” perché ascoltino la voce degli ultimi. Perché, in altri termini, il Nord del mondo cambi la politica nei confronti del sud, ponendo al centro i diritti fondamentali dell’uomo. E’ un percorso lungo, che travalica i compiti del Viminale. Ma intanto il Viminale, il Governo, possono fare molto. Ad esempio, un’azione energica a Bruxelles per arrivare finalmente a un sistema unico di accoglienza europeo, con quote obbligatorie, condiviso e applicato da tutti gli Stati membri della Ue; l’istituzione di vie di immigrazione legali; una riforma radicale del sistema di accoglienza italiano, naufragato sotto la valanga di decine di migliaia di posti “provvisori” nei Cas, dove i richiedenti asilo vengono immersi in un limbo senza fine, mentre restano una nettissima minoranza i percorsi di inserimento sociale previsti nella rete dello Sprar. Di fronte alla catastrofe umanitaria che stiamo vivendo, insomma, si tratta, non di restringere ma di ampliare i criteri dell’asilo e dell’accoglienza. Il giro di vite che lei, ministro, ha proposto sui respingimenti degli “irregolari” va esattamente nella direzione opposta.
Grazie per l’attenzione che avrà voluto dedicarci. Cordiali saluti,

Don Mussie Zerai, presidente dell’agenzia Habeshia

Emilio Drudi, portavoce dell’agenzia
  
Roma, 3 gennaio 2016

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