lunedì 13 aprile 2015

Il Genocidio del XX secolo 1904-1905 precedente a quello Armeno e quello Ebreo

Namibia: gli Herero sfidano ancora la Germania

di Emilio Drudi

Davide contro Golia. Il piccolo popolo degli Herero, in Namibia, contro la grande e potente Germania. Chiede scuse ufficiali e un risarcimento per l’eccidio compiuto dal governo coloniale all’inizio del 1900, quando quasi l’intera etnia fu sterminata, insieme a quella dei Nama. Un eccidio a lungo dimenticato, quasi dissolto negli avvenimenti che, all’indomani della prima guerra mondiale, hanno portato l’impero tedesco in Africa sotto il dominio del Regno Unito.
Sono, gli Herero, meno dell’otto per cento della popolazione namibiana attuale, 160 mila persone circa, incluso il sottogruppo degli Himba. Appena un ventesimo scarso degli abitanti della sola Berlino. Vivono quasi tutti nella grande fascia del Damaraland, nel nord ovest del paese, sparsi in tre regioni, il Kunene, l’Erongo e parte dell’Otjozondjupa, anche se gruppi minori si possono incontrare più a nord e a est, fino al Kavango, lungo la sponda meridionale del fiume Cubango, che segna il confine con l’Angola. Molti sono concentrati nelle piccole città di Okahandja, Otjimbingwe, Omaru e Opuwo. Alcuni (o, meglio, alcuni clan) sono tra i maggiori allevatori di bovini della Namibia. La maggioranza, però, strappa la vita in piccoli, poveri insediamenti di pastori seminomadi. Opuwo, il capoluogo del Kunene, è un po’ l’emblema di questo sistema misto tra nuclei urbani e campagna. La città conta poco più 5 mila abitanti. Ma “città” è una parola grossa. Tutto si riduce a una chiesa, un ospedale, la scuola primaria e secondaria, un campo di calcio sassi e polvere, con le porte sbilenche, un paio di distributori di benzina, poche abitazioni, alcuni negozi con merci di prima necessità, dagli alimentari agli utensili, un piccolo lodge per i rari turisti che si spingono fin quassù, nell’ultimo centro abitato prima della vasta area desertica del Kaokoland. Poi, un grande supermercato aperto di recente, attorno al quale ruota l’intera vita quotidiana, con un andirivieni continuo di vecchie auto e pick-up stracarichi di famiglie.
La gente risiede per lo più nei villaggi disseminati nella savana e nella boscaglia, dove si pratica uno scarno allevamento di sopravvivenza, integrato da qualche fazzoletto di terra coltivato a mais o a sorgo. Villaggi quasi sempre minuscoli: non più di una quindicina o una ventina di alloggi. Sono un po’ più grandi solo quelli dove lo Stato ha aperto la scuola primaria, a servizio di più nuclei. Ogni villaggio corrisponde quasi sempre a un clan familiare. Specialmente tra gli Himba, meno di frequente tra gli Herero, i cui insediamenti sono generalmente più vasti. A parte le dimensioni, la differenza si coglie subito anche dalla forma delle capanne: circolari quelle degli Himba, rettangolari quelle degli Herero. La tecnica di costruzione, però, è la stessa: pali di legno, paglia e qualche volta, soprattutto tra gli Herero, un intonaco di fango secco, sostituito sempre più spesso, negli ultimi anni, da tavolati di scarto o da bandoni metallici. E’ molto diverso, invece, il costume tradizionale. Quasi tutte le donne Himba vestono tuttora di pelli: un gonnellino e basta, integrato magari da una mantellina corta che copre appena le spalle. Una cura particolare viene riservata ai capelli, suddivisi in treccine impastate di un misto di burro e polvere d’ocra, con la quale ognuna si spalma anche il corpo, incluso il seno, lasciato scoperto. E’ molto più difficile, invece, incontrare degli uomini con il perizoma di pelle, i capelli raccolti in un ciuffo arrotolato e gettato all’indietro e un lungo pugnale sul fianco. La maggioranza veste ormai all’europea. Come fanno tutti gli Herero, le cui donne, però, indossano ancora oggi, immancabilmente, gli abiti lunghi multicolori, imposti tra la fine del 1800 e l’inizio del 1900 dai missionari luterani, con ampie gonne a balze o crinoline e in testa un fazzoletto-cuffia annodato in maniera da terminare con due punte ai lati della fronte, quasi due corna.
Ecco, è questa gente, sono questi pastori sparsi nel Damaraland o nel Kaokoland, a migliaia di chilometri dall’Europa, che hanno deciso di sfidare la Germania di fronte al mondo. Combattono già da anni e sono sempre più risoluti a non cedere. “In questa lotta – dicono – abbiamo dalla nostra parte le ragioni della storia: siamo i discendenti più diretti dei superstiti delle stragi sistematiche condotte dal governo imperiale tedesco contro chi ha osato ribellarsi al suo dominio coloniale”. Già, sono gli ultimi “eredi” dei pochissimi scampati al primo, terribile genocidio di stato dell’epoca contemporanea, attuato in nome di una pretesa superiorità razziale, per spazzare via un intero popolo ritenuto “inferiore” e, in definitiva, non degno di vivere. “L’olocausto del kaiser”, come è stato definito da David Olusoga e Casper W. Erichsen, due giovani storici, in un recente, prezioso libro che, ricostruendo questo eccidio dimenticato e sottaciuto, evidenzia le molte, dirette connessioni tra il dominio coloniale della Germania di Guglielmo II e il nazismo.
E’ accaduto tra il 1904 e il 1908, poco più di vent’anni dopo l’arrivo dei primi coloni tedeschi in quella che allora era chiamata l’Africa del Sud Ovest. Ne è stato artefice principale il generale Lothar von Trotha. Tutto è partito dalla rivolta promossa e capeggiata da Samuel Maharero, il condottiero degli Herero, ai quali si sono presto uniti anche i Nama, contro la politica tedesca che, apertamente non ugualitaria nei confronti della popolazione africana, incoraggiava i coloni a sottrarre terre e pascoli alle tribù e a trattare come subordinati tutti i “neri”.
La ribellione ebbe inizio nel gennaio 1904 con una serie di attacchi agli insediamenti coloniali, la distruzione di numerose fattorie e l’uccisione di oltre 120 tedeschi. Da qui la richiesta di rinforzi inviata a Berlino da parte dell’amministratore imperiale della colonia, Theodor Leutwein, e l’arrivo del generale Lothar von Trotha, come capo superiore dell’intera Africa del Sud Ovest, con un contingente di 14 mila soldati ben armati. Seguirono scontri e operazioni di guerriglia, fino alla battaglia decisiva di Waterberg, nella quale un esercito di circa 5 mila Herero e Nama fu sconfitto, costretto a fuggire e spinto verso il deserto del Kalahari. Poi, mentre Maharero e pochi superstiti ottenevano l’asilo politico nel territorio britannico del Bechuanaland, cominciò l’eliminazione sistematica di tutti i ribelli: non solo gli uomini combattenti ma donne, bambini e anziani. Una vera e propria pulizia etnica. E’ eloquente il messaggio diffuso da von Trotha quando ormai anche gli ultimi fuochi di rivolta si stavano spegnendo: “Il popolo Herero deve lasciare il paese. Ogni Herero che sarà trovato all’interno dei confini tedeschi, con o senza un’arma, con o senza bestiame, verrà ucciso. Non accolgo più né donne, né bambini: li ricaccerò alla loro gente e farò sparare loro addosso. Queste sono le mie parole per il popolo Herero”.
Non furono parole dette invano. Von Trotha e, più in generale, il governo coloniale adottarono una serie di misure volte a sterminare gli Herero e i Nama: razzie e mattanza del bestiame, che era la fonte di sostentamento essenziale per quelle popolazioni; presidio e avvelenamento dei pozzi e delle sorgenti; esecuzioni di massa, arresti e imprigionamenti, fino all’istituzione di lager dove furono rinchiuse tutte le genti delle due etnie ancora presenti nel territorio: uomini, donne, anziani, bambini, feriti, malati. Lager che si rivelarono micidiali campi di sterminio, nei quali era elevatissima la mortalità per fame, inedia, malattie, fatica fisica. Molti, inclusi i bambini, furono costretti a lavorare come schiavi presso imprese pubbliche o aziende private oppure per l’esercito. Tutti erano schedati in base alla prestanza fisica e tanti, specie quelli ancora in forze, furono usati come cavie per esperimenti medici.
A coordinare questi esperimenti giunse in Namibia dalla Germania il professor Eugen Fisher, un genetista il quale, convinto sostenitore della “purezza della razza”, oltre che sui prigionieri Herero, si concentrò in particolare sui mulatti, i buster, figli di uomini bianchi (tedeschi o olandesi) e donne africane. Sottopose oltre 300 di loro a verifiche ed esami, con test che prevedevano la sterilizzazione, l’inoculazione di germi di malattie come il vaiolo, il tifo o la tubercolosi. Giungendo poi alla conclusione che si trattava di razze inferiori da segregare o addirittura eliminare, in modo da tutelare l’integrità della razza tedesca. Non fu da meno il dottor Bofinger, che si occupò soprattutto degli Herero e dei Nama malati di scorbuto, uomini, donne e bambini che “trattò” con iniezioni di arsenico ed oppio, per studiarne poi gli effetti con le successive autopsie sui cadaveri.
Secondo David Olusoga e Casper W. Erichsen, appare evidente come queste crudeli sperimentazioni siano state il “banco di prova” o, meglio ancora, l’antefatto diretto delle procedure mediche adottate dai nazisti nei confronti degli ebrei durante la Shoah. Non a caso il professor Fisher, reduce dall’esperienza fatta nell’Africa del Sud Ovest, divenne rettore dell’Università di Berlino dove, docente di medicina e genetica, ebbe come allievo anche Josef Mengele, noto per gli orrendi test condotti ad Auschwitz sugli ebrei. In particolare sui gemelli e sui bambini. In questo contesto, su iniziativa soprattutto di Fisher, centinaia di crani o addirittura scheletri interi di Herero furono portati in Germania, presso varie università ed istituti pubblici o privati, “per motivi di studio”. Per continuare, cioè, quelle ricerche iniziate nei lager in Africa con le misurazioni del capo e della struttura corporea dei prigionieri, con le analisi dei capelli e degli occhi, gli esami medici e i test clinici che usavano uomini e donne, in forze o allo stremo, come cavie. Sempre con la pretesa che si aveva comunque a che fare con una razza inferiore. Verso la fine del 1916, ad esempio, il dottor Bofinger fece decapitare i corpi di 17 prigionieri Nama del campo di Shark Island, inclusa una bambina di appena un anno, e ne inviò i crani o i cervelli, conservati in una soluzione alcolica, all’Istituto di Patologia dell’Università di Berlino, dove furono usati per una serie di esperimenti dal futuro scienziato della razza Christian Fetzer, allora studente di medicina, per dimostrare le somiglianze anatomiche tra i Nama e le scimmie antropoidi.
Dopo circa cinque anni di stragi e di questo “trattamento scientifico”, degli oltre 80 mila Herero presenti nel Damaraland prima della ribellione, ne rimasero in vita meno di 15 mila, in condizioni fisiche penose, massacrati come individui e come popolo. E agli almeno 65 mila Herero trucidati vanno aggiunti circa 20 mila Nama. Un vero e proprio genocidio, che ha spazzato via l’80 per cento dell’etnia Herero e la metà dei Nama.
Gli Herero di oggi discendono da quelle poche migliaia di sopravvissuti e ne hanno ereditato l’orgoglio, la fierezza e il coraggio. E’ con grande fierezza e dignità, infatti, che ora sfidano il governo tedesco, chiedendo scuse ufficiali per “l’olocausto del kaiser” e un risarcimento adeguato, che dia concretezza all’ammissione di colpa, a partire dalla restituzione immediata delle decine di crani e scheletri ancora conservati in Germania. Sanno di avere di fronte un gigante. E che il loro stesso governo, nel timore di inimicarsi Berlino, non li segue del tutto in questa battaglia. Ma sono decisi ad andare sino in fondo, anche a costo di protrarre la sfida per anni. “Contrariamente a quanto si aspettavano probabilmente il generale von Trotha e il potere coloniale – afferma uno dei capi Herero – lo sterminio sistematico dei primi del 1900 non ha cancellato il nostro popolo. Anzi, questa tragedia, la coscienza di quanto è accaduto, ci ha come rigenerato. E’ da questa coscienza che traiamo quella forza che prima o poi costringerà Berlino a darci ascolto. E’ il modo migliore, anzi l’unico, per onorare la memoria dei nostri antenati”. 

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