venerdì 15 agosto 2014

Libia, profughi schiavi come carne da cannone


di Emilio Drudi
Carne da cannone. E’ l’ultimo capitolo della tragedia dei profughi in Libia. Decine, centinaia di giovani fuggiti dal Corno d’Africa o dall’Africa sub sahariana vengono sequestrati da miliziani delle varie fazioni in lotta e costretti a trasportare in battaglia armi, munizioni e rifornimenti, fin sulla linea del fuoco. Come schiavi.
A darne notizia, nel silenzio della politica e dei media, è stata ancora una volta l’agenzia Habeshia, alla quale stanno pervenendo da giorni disperate richieste di aiuto. Telefonate analoghe sono poi arrivate ad alcuni esponenti della diaspora eritrea in Europa: la maggior parte delle vittime di questo nuovo orrore, infatti, sono ragazzi che hanno scelto l’esilio per sottrarsi alla dittatura di Asmara. E parecchi di loro sarebbero rimasti uccisi nei combattimenti ai quali sono costretti a partecipare come “ausiliari forzati”, presi tra le armi puntate alla schiena dai loro aguzzini e le raffiche sparate dalle altre bande. “Secondo segnalazioni provenienti da varie parti del territorio libico – racconta don Mussie Zerai, il presidente dell’agenzia – ci sono già numerosi feriti e sicuramente anche dei morti, come si evince da varie testimonianze dirette e dal fatto che di molti giovani sequestrati si è persa ogni traccia: c’è da pensare che siano spariti nella fornace di una guerra che non hanno scelto e che non li riguarda”.
Non è la prima volta che in Libia i profughi subiscono questo martirio. Un precedente significativo risale all’inizio del 2012, oltre due anni fa. E’successo a Cufra, la città-oasi del Fezzan, duramente contesa tra le varie forze in campo fin dall’inizio della rivoluzione a causa della sua importante posizione strategica: è il primo grosso insediamento che si incontra venendo dal confine sahariano, con una potente base militare e un grosso centro di detenzione per i migranti intercettati nel deserto, allestito in una vecchia caserma e attivo fin dai tempi di Gheddafi. Il rais era caduto da pochi mesi e le milizie irregolari dei ribelli già combattevano tra di loro e contro l’esercito regolare. Un gruppo armato fece irruzione nell’ex caserma e prelevò alcuni dei prigionieri ammassati negli stanzoni-cella, costringendoli poi a seguirli in battaglia come “portatori” di granate, nastri di mitragliatrice, cassette di proiettili. Altri furono obbligati a scaricare camion di munizioni sotto i bombardamenti di formazioni rivali.
Un caso forse ancora più crudele si è registrato nell’aprile del 2013 a Sirte, la città di Gheddafi. Numerosi profughi detenuti nel lager della zona sono stati utilizzati come sminatori: costretti a bonificare la pianura costiera dai proiettili inesplosi, dalle mine, dagli ordigni di ogni tipo lasciati dalla guerra civile, che qui ha registrato alcune delle battaglie più furiose durante l’avanzata dei ribelli verso Tripoli. Un’autentica tortura per ragazzi assolutamente inesperti e privi di qualsiasi attrezzatura o assistenza. “Ogni risveglio era un incubo – ha raccontato un testimone – Poteva capitare a chiunque di noi di essere mandato a sminare il terreno sabbioso a mani nude… Più di qualcuno la sera non è rientrato. Ci dicevano che i feriti venivano portati in ospedale. Ma in genere non ne abbiamo più avuto notizia. Era una sfida quotidiana con la morte. Ma era impossibile sottrarsi: chi si rifiutava veniva picchiato a sangue o rischiava di essere passato per le armi”.
La stessa “tecnica” viene adottata ora: pestaggi feroci e minacce di morte per chi prova a resistere. In più, adesso, il ricorso ai “portatori-schiavi” non riguarda casi isolati ma, a quanto pare, è diventato sistematico. Accade ormai da più di due settimane. Da quando, in pratica, si sono intensificati gli scontri nella guerra di tutti contro tutti che, iniziata all’indomani della rivolta anti Gheddafi, rischia di cancellare il Paese stesso. La prima segnalazione è stata fatta verso la fine di luglio a Tripoli, durante i combattimenti per il controllo della zona aeroportuale. Diversi testimoni hanno telefonato all’agenzia Habeshia raccontando che decine di giovani erano stati prelevati nelle loro case o bloccati per strada, mentre cercavano di fuggire dalle zone a rischio, da uomini armati che li hanno obbligati a seguirli in battaglia come “ausiliari forzati”. Don Zerai ha immediatamente sollecitato a intervenire la comunità internazionale. Si è rivolto al Commissariato Onu per i rifugiati, all’Unione Europea, agli Stati Uniti, a varie cancellerie occidentali. “Così come si sta organizzando l’evacuazione dei cittadini europei e americani presenti in Libia per sottrarli ai rischi della guerra – ha scritto – occorre nello stesso tempo portare in salvo i profughi, a cominciare da quelli più esposti alle angherie dei miliziani, che possono disporre della loro stessa vita, che spesso non nascondono un disprezzo razzista nei confronti di tutti gli africani ‘neri’ e che non esitano a uccidere al minimo cenno di resistenza”.
Non ci sono state risposte. Silenzio assoluto. Nel frattempo la situazione è peggiorata rapidamente, allargandosi a buona parte dei fronti di combattimento. Il caso più grave è segnalato a Misurata, sulla costa. Nella zona periferica di Bilkaria, nella ex scuola di Kalelarim, è stato allestito un centro di detenzione provvisorio dove sono rinchiusi centinaia tra uomini, donne e bambini, quasi tutti eritrei, sorpresi in varie fasi nel deserto mentre cercavano di raggiungere Tripoli, circa 200 chilometri più a ovest. Sono stati catturati spesso in circostanze drammatiche: per bloccarli la polizia o i miliziani non hanno esitato a sparare, tanto che ci sono stati due morti e diversi feriti. I primi prigionieri sono arrivati circa due mesi e mezzo fa e il flusso non si è mai interrotto. Si è così formato un grosso nucleo iniziale di 405 uomini, 103 donne e 18 bambini, via via cresciuti con nuovi arrivi nell’ultimo mese. Oggi i prigionieri sono circa 700, costretti a vivere in condizioni estreme: maltrattamenti, soprusi, degrado, poco cibo e di pessima qualità, scarsissima persino l’acqua da bere. E nessun tipo di assistenza, neanche per i malati e per i feriti, affidati unicamente alle cure di un paramedico che si fa vedere una sola volta alla settimana. Un lager che continua a riempirsi di disperati. E ora i miliziani ne hanno fatto una riserva inesauribile di portatori-schiavi di armi e munizioni in tutti gli scontri che sconvolgono la regione. La “tratta” è cominciata con un gruppo di ben 225 giovani, tutti uomini. Li hanno prelevato asserendo che sarebbero stati portati a lavorare: sono finiti, invece, in mezzo alla guerra. Per settimane non se ne è saputo più nulla, fino a che, qualche giorno fa, sono tornati al campo sette ragazzi feriti, i quali hanno raccontato l’orrore vissuto, riferendo anche che diversi loro compagni sono rimasti uccisi. Ma non è finita: i miliziani hanno sostituito i sette feriti con altri 61 prigionieri. Di loro non si ha più notizia da quando hanno lasciato il carcere.
“E’ l’ennesimo crimine che si sta commettendo sulla pelle di profughi e richiedenti asilo abbandonati da tutti – protesta don Zerai – Nessuno si preoccupa di tutelare i loro diritti, a partire da quelli alla vita stessa e alla libertà. Ne devono certamente rispondere i miliziani che li stanno schiavizzando, ma pesanti responsabilità, per queste atrocità subite dai profughi del Corno d’Africa e dell’Africa sub sahariana, gravano anche su quei paesi che hanno intrappolato migliaia e migliaia di giovani in una realtà come quella libica, con la loro politica volta a ‘esteriorizzare’ e a spostare i confini europei sulla sponda meridionale del Mediterraneo e, ultimamente, anche più a sud. Quei governi che hanno fatto di vari Stati africani, a cominciare dalla Libia, i gendarmi per il controllo dell’emigrazione, lasciandoli decidere della vita e della morte di chi è costretto a scappare dal proprio paese per salvarsi da guerre e dittature, persecuzioni politiche, religiose, razziali”.
Sulla base del dossier di informazioni ricevute, alla vigilia di Ferragosto Habeshia ha lanciato un altro, disperato Sos alla comunità internazionale. “Per l’ennesima volta  e con ancora più forza – insiste don Zerai – chiediamo all’Onu, all’Unione Europea e agli Stati Uniti di intervenire quanto prima possibile per organizzare una o più vie di fuga per i migranti bloccati in Libia. Roma vanta da sempre rapporti ‘diretti’ con Tripoli. Allora, ci rivolgiamo in particolare all’Italia, sia perché è l’unico Stato europeo ad aver mantenuto aperta la propria ambasciata a Tripoli, sia per gli accordi bilaterali firmati ripetutamente con i leader libici, dai tempi di Gheddafi sino ad oggi. Al Governo, al ministero degli Esteri e all’ambasciatore chiediamo, come primo intervento immediato, di tentare di bloccare con tutti i mezzi possibili i sequestri e l’uso dei profughi come ‘ausiliari-schiavi’ nei combattimenti: è l’unico modo per fermare il massacro. In questo semestre, oltre tutto, l’Italia è alla guida dell’Unione Europea: è l’occasione migliore per coinvolgere l’intera Europa nell’organizzazione di corridoi umanitari per i gruppi di rifugiati più vulnerabili e bisognosi di protezione. Se davvero, come dice, Roma vuole ‘dare una svolta’ alla politica africana, non può sottrarsi a questa scelta”.

Appelli dello stesso tono stanno preparando diverse associazioni della diaspora eritrea. E’ probabile anzi che, insieme all’inattesa “apertura di credito” decisa dal governo italiano nei confronti della dittatura di Isaias Afewerki con il recente viaggio ad Asmara del vice ministro agli esteri Lapo Pistelli, questa tragedia abbia vasta risonanza nella manifestazione degli esuli residenti in tutta Europa, prevista per la fine di agosto a Bologna. “Intervenire subito per salvare quante più vite possibile è la cosa più urgente – dicono alcuni giovani eritrei rifugiati a Roma – La Libia non ha mai firmato la convenzione di Ginevra del 1951 sulla tutela dei diritti dei migranti e non ha mai rispettato quella analoga sottoscritta con l’Unione Africana. E’ tempo che la comunità internazionale si muova. Tuttavia – denunciano senza mezzi termini – va ricordato che quelle migliaia di nostri fratelli non sono finiti per caso nel tritacarne libico: ce li ha cacciati la dittatura di Asmara. Quella dittatura dalla quale noi stessi siamo stati costretti a scappare e alla quale ora l’Italia sta ridando fiato. Proprio ora che il regime sta attraversando forse il suo momento di maggiore difficoltà, isolato com’è da tutta la comunità internazionale, accusato di sostenere il terrorismo dagli altri Stati della regione, probabilmente in procinto di essere imputato dalla Svezia di crimini contro l’umanità, sotto inchiesta all’Onu per la violazione sistematica dei diritti umani, oggetto di pesanti critiche anche da parte di tutti i vescovi del paese e del Consiglio mondiale delle Chiese. Non a caso, del resto, quello dell’Eritrea è l’unico governo ad essere stato escluso (insieme alle dittature del Sudan e dello Zimbawe), per volontà esplicita del presidente Obama, dall’incontro tra Africa e Stati Uniti che si è tenuto a Washington nei giorni scorsi. E non a caso è eritreo un profugo su tre delle decine di migliaia che continuano ad arrivare in Italia e in Europa”.   

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