venerdì 18 ottobre 2013

Eritrea: rischia di esplodere la “bomba” della tragedia di Lampedusa

di Emilio Drudi
“Sono andati laggiù col pretesto di identificare i morti ma, in realtà, per identificare i vivi”: gli eritrei della diaspora, le associazioni dei rifugiati e i movimenti di opposizione al regime, non sembrano avere dubbi sulla visita a Lampedusa da parte di Zemede Tekle, ambasciatore di Asmara a Roma. Il diplomatico si è recato sull’isola a dieci giorni di distanza dalla tragedia. Come primo atto ha cercato di avvicinare i superstiti, direttamente o attraverso i funzionari del suo seguito.
C’è stata una tragedia enorme, con centinaia di vite perdute: sembrerebbe normale che un ambasciatore senta il dovere di accorrere ad ascoltare, a portare una parola e un gesto di solidarietà ai connazionali che ne sono stati travolti. Solo che quei disperati, i morti e i sopravvissuti, fuggivano e fuggono ancora proprio dal regime che quel diplomatico rappresenta. E’ lui, in Italia, il volto del governo che quella gente rifiuta. E infatti quasi tutti non hanno voluto ascoltarlo, denunciando senza esitazioni che dalla loro ambasciata vogliono tenersi lontani: non ne riconoscono la legittimità così come non riconoscono la legittimità della dittatura di Iasaias Afewerki che li ha costretti a fuggire per sottrarsi a persecuzioni e carcere, fame e guerra. Zemede Tekle, in una intervista televisiva, ha negato di essere stato “rifiutato”. Ha sottolineato, anzi, di essere stato accolto a Lampedusa con simpatia e riconoscenza dai rifugiati ed ha assicurato che il suo governo si farà carico di riportare in Eritrea tutte le salme, come gli hanno chiesto i familiari delle vittime. Ma la diaspora insiste: “Quando si sono resi conto di chi avevano di fronte – riferiscono Miriam e Tseghehans, due giovani esuli, esponenti del movimento Eritrean Youth Solidarity for Change (Eysc), che dopo la sciagura si sono precipitati a Roma da Francoforte e Milano – i nostri fratelli lo hanno allontanato. Lui e quelli che erano con lui”.
In effetti, ci sarebbe da stupirsi del contrario: se cioè avessero accolto l’ambasciatore con fiducia e amicizia. Proprio perché si tratta di esuli e richiedenti asilo. Lo sapeva bene anche lo stesso Zemede Tekle. Ma allora perché è andato? Non subito, oltretutto, ma diversi giorni dopo. L’opinione più diffusa è che si tratti di un tentativo di controllare e prevenire gli effetti della “bomba” che rischia di diventare per Asmara la tragedia di Lampedusa. La notizia in Eritreea è stata inizialmente sottaciuta o comunque almeno in parte travisata: si è detto di un naufragio di migranti africani irregolari, tra i quali anche alcuni eritrei. Ma altroché “alcuni eritrei”: a parte due sudanesi e sei somali, i morti sembra siano eritrei quasi tutti, ben 357 su 365. Una cinquantina sono stati già identificati dai familiari e quasi altrettanti dai compagni che erano sul barcone affondato, ma anche quelli ancora senza nome sono giovani scappati dall’Eritrea. Lo affermano i sopravvissuti: si conoscevano e hanno percorso insieme l’ultimo tratto del cammino della speranza verso l’Europa, dal concentramento nel porto di partenza, in Libia, all’imbarco e poi alla traversata fino a mezzo miglio da Lampedusa.
Forse è la più grave catastrofe degli ultimi anni per la popolazione eritrea. “E’ una strage nata dalle condizioni invivibili in cui è precipitato il paese – dicono vari esponenti della diaspora – Quei morti sono un autentico, pesante atto d’accusa contro il regime. I funerali di stato in Italia si sono rivelati una promessa vuota, nonostante l’impegno fosse stato preso ai livelli più alti: dal premier Letta e dai ministri Alfano e Bonino. Tuttavia se prima o poi, come chiedono in molti, si riuscirà a riportare in Eritrea, tutti insieme, questi poveri morti per seppellirli, sempre tutti insieme, nella loro terra, quel cimitero diventerà un sacrario: una specie di monumento alla sofferenza della popolazione ed una denuncia permanente della dittatura che ha costretto a fuggire quei disperati e ne ha fatto degli esuli, portandoli a trovare la morte in fondo al mare di Lampedusa. I luoghi parlano. Questo ‘luogo’ racconterà per sempre cosa accade oggi nel nostro paese. E potrebbe essere il primo passo per il cambiamento: l’inizio del nostro risorgimento e, dunque, l’inizio della fine del regime”.
Messa così si spiegherebbe l’iniziativa dell’ambasciatore: potrebbe essere il tentativo di dimostrare che quei giovani, uomini e donne, non sarebbero profughi scappati dalla dittatura ma semplici migranti irregolari, incappati in una storia più grande di loro e pronti ad accettare l’aiuto e la solidarietà del loro governo. In modo da far passare l’idea, in caso di nuovi sbarchi, che gli eritrei non vengono in Europa per sfuggire alla persecuzione e alla guerra, ma solo come immigrati in cerca di lavoro e, dunque, da respingere e rimpatriare dopo il primo soccorso. L’opposto di quanto è accaduto finora, visto che ad oltre il 75 per cento degli eritrei giunti in Occidente è stata riconosciuta una forma di protezione internazionale. Potrebbe rientrare in questo contesto anche il tentativo di identificare e fotografare i superstiti. “Conoscendone l’identità – spiegano Miriam e Tseghehans – la polizia può risalire facilmente ai loro familiari e usarli quasi come ostaggi per ricattare i fuoriusciti, con la minaccia di ritorsioni, incriminazioni, imprigionamenti. I profughi lo sanno bene: è un modo per imbavagliarli e soffocare l’opposizione interna ed esterna. Per questo rifiutano qualsiasi contatto con l’ambasciata e, nella fattispecie, contestano la visita di Zemede Tekle a Lampedusa”.
Una conferma di una possibile strategia di questo genere da parte di Asmara tramite i suoi uffici diplomatici di Roma, viene dal fatto che quasi in contemporanea col viaggio dell’ambasciatore a Lampedusa, Derres Araia, delegato in Italia dei migranti eritrei fedeli al regime, è riuscito a farsi ricevere dal ministro Cecile Kyenge proprio per parlare del naufragio. In particolare, per risolvere il problema del rientro delle salme. Parlando col ministro, come riferiscono le agenzie, “ha chiesto a nome delle famiglie di poter riavere i corpi” delle vittime, assicurando che Asmara “ha già dato disposizione per affrontare le spese di trasporto e l’assistenza necessaria”. Ma quali salme? “Per quanto se ne sa – protestano vari portavoce della diaspora – soltanto quelle delle persone identificate, in modo da seppellirle singolarmente, dopo averle consegnate ai parenti. Le altre non vengono prese in considerazione: si dice in sostanza che, senza identificazioni certe e conferme ufficiali, non ci sono prove che si tratti di eritrei. Non basta la testimonianza dei compagni sopravvissuti”.
Se è così, l’obiettivo appare evidente: far decantare l’emozione suscitata dalla strage in Italia e, soprattutto, evitare il rientro e la sepoltura collettiva in un unico luogo simbolo. “Perché un sacrario così fa paura”, insistono gli oppositori del regime, aggiungendo: “Derres Araia ha detto al ministro di parlare a nome delle famiglie delle vittime. Ma i profughi e le loro famiglie fanno riferimento alla comunità degli eritrei della diaspora contrari al regime, mentre il gruppo rappresentato da Araia è tutt’altra cosa: non ha niente a che fare, in pratica, con gli esuli di Lampedusa, ma c’è da dubitare che lo abbia fatto capire al ministro”.

Don Mussie Zerai, il portavoce dell’agenzia Habeshia, è particolarmente duro su questo aspetto: chiama in causa Cecile Kyenge e chiede al governo italiano di seguire la situazione con molta più cautela e cognizione: “Il ministro Kyenge sembra non sapere con chi ha parlato. Quelli che si sono presentati come esponenti della Comunità Eritrea sono in realtà i sostenitori di Isaias Afewerki. Ma come è possibile non fare distinzioni tra i rifugiati e il regime o i suoi adepti? Derres Araia è uno dei più accaniti fan dell’attuale governo di Asmara. Più volte, ad esempio, è venuto a disturbare le conferenze nelle quali denunciavamo le malefatte e le prepotenze del potere. E mentre lui veniva ricevuto al ministero, mi risulta che funzionari dell’ambasciata eritrea, incluso lo stesso ambasciatore, giravano indisturbati a Lampedusa, cercando di incontrare i richiedenti asilo, chiedendo l’elenco dei loro nomi, fotografandoli. Non mi sembra una coincidenza casuale. Alla luce di tutto questo mi riesce difficile capire come il ministro Kyenge possa aver manifestato ‘un’ampia disponibilità a collaborare’. In particolare per gli interventi a favore dei giovani. E’assurdo, difatti, ignorare che in realtà la prospettiva di ogni giovane eritreo, uomo o donna non fa differenza, è quella di essere costretto ad entrare nell’esercito a 16 anni e a restarci sino a 40-50 anni di età. Una vita intera da militari a servizio del regime. Anzi, dei ras del regime. Anche per questo sono così tanti a scappare. Allora non ha senso piangere i morti di Lampedusa e magari le centinaia di altri scomparsi nel Mediterraneo con meno clamore e poi aprire vie di collaborazione con gli esponenti della dittatura che è alla radice di queste tragedie: che i giovani come quelli annegati nel mare italiano li sequestra per quasi tutta la vita e li getta in galera o peggio se cercano di ribellarsi. E ha ancora meno senso che, fatti saltare i funerali di stato promessi, alla frettolosa, raffazzonata cerimonia indetta ad Agrigento per ricordare le vittime, il governo italiano abbia invitato anche l’ambasciatore Zemede Tekle, uno dei rappresentanti di questa dittatura”.

venerdì 11 ottobre 2013

L’inutilità del reato di ingresso e soggiorno illegale e le buone ragioni per la sua rapida abrogazione

Comunicato 


 

Il recente tragico naufragio di Lampedusa e l'iscrizione al registro degli indagati dei sopravvissuti da parte della Procura di Agrigento ha riportato all’attenzione dell’opinione pubblica il reato di ingresso e soggiorno illegale.

In questa nota ASGI traccia brevemente il quadro della situazione ed evidenzia le ragioni e le conseguenze sin qui prodotte dalla sua introduzione nel 2009, con il c.d pacchetto sicurezza, fortemente voluto dall'allora ministro all'Interno, Roberto Maroni (e non dalla c.d. legge Bossi-Fini, risalente al 2002) . Pacchetto sicurezza con cui, ricordiamo, all'epoca si era cercato di introdurre l'obbligo di segnalazione degli stranieri che accedevano ai presidi sanitari, previsione poi abbandonata anche a seguito della forte opposizione degli ordini dei medici.

E', dunque, positivo che si riapra il dibattito sulle irragionevoli ragioni dell’esistenza di un reato inutile, che rivela l’incapacità e la non volontà del legislatore di disciplinare in modo efficace e realistico i canali di ingresso regolare dell’immigrazione, fenomeno strutturale che è illusorio possa essere governato con norme penali .
Un reato che, ad oggi, risulta fonte di spese per lo Stato che impegna rilevanti risorse per la celebrazione dei processi, con un aggravio burocratico per gli uffici, al punto che lo stesso Ministero della giustizia ne ha proposto l’abrogazione nel maggio 2013.

Contrariamente a quanto si pensi, il reato di clandestinità non è causa di sovraffollamento carcerario perché chi lo commette e' punito con una contravvenzione che prevede il pagamento di un'ammenda da 5.000 a 10.000€, che non viene mai riscossa: infatti chi soggiorna illegalmente non è titolare di beni patrimoniali alla luce del sole, aggredibili dall' Agenzia delle entrate. La detenzione, inoltre, non puo' essere prevista perchè punire l'irregolarita' con il carcere contrasta con la Direttiva rimpatri come a più riprese affermato dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea .

Un reato inutile e dannoso, dunque, previsto da una c.d.” legge manifesto”, che al pari delle grida manzoniane, vuole affermare astrattamente che la clandestinità è reato, perché così si dà l’illusione che lo Stato è forte (con i deboli), anche se non serve a nulla e incide sulla spesa pubblica senza alcun ritorno.
La vera utilità del reato di clandestinità consiste nel fornire all’elettorato il “tranquillante messaggio” conseguente alla parificazione del clandestino al delinquente.
Non vi sono dunque ragioni per mantenerlo in vita, e chi afferma il contrario o non è informato o ha interesse al mantenimento dello stigma del clandestino - delinquente per fini propagandistici .

Associazione per gli Studi Giuridici sull'Immigrazione


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Silvia Canciani
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Accoglienza dei profughi: la Regione Lazio volta pagina. In cantiere una nuova legge

La Regione Lazio lancia la sfida di un cambiamento radicale del sistema di accoglienza per i profughi e i rifugiati. Primo passo: una nuova legge da varare al più presto e che ha l’ambizione di proporsi eventualmente come modello o punto di riferimento per altre regioni italiane e per la stessa nuova normativa nazionale che, sulla scia della tragedia di Lampedusa, viene invocata da più parti.
Se ne è discusso in un incontro tra l’assessore ai servizi sociali Rita Visini, il consigliere Enrico Forte (Pd) e don Mussie Zerai, fondatore e portavoce dell’agenzia Habeshia. Una presenza, questa, certamente non casuale: don Zerai – che da anni denuncia il dramma dei rifugiati e il muro di ostilità e diffidenza eretto in Italia e in buona parte dell’Europa nei loro confronti – è di origine eritrea: eritreo come buona parte, la maggioranza, degli uomini e delle donne che hanno perso la vita a Lampedusa, proprio quando pensavano che si profilasse finalmente la salvezza dalla guerra e dalle persecuzioni da cui erano fuggiti.
“La tragedia di Lampedusa urla che dobbiamo accelerare i tempi per la riforma che abbiamo in mente – ha dichiarato l’assessore Rita Visini – Ma l’idea di varare una nuova normativa, anzi, un nuovo sistema, più vicino e attento ai bisogni reali dei profughi, è stata fin dall’inizio uno dei punti guida del mio assessorato e della giunta. Ci ha spinto a inserirla tra le priorità della Regione la situazione esplosiva che si registra giorno per giorno nell’intero Lazio: in particolare a Roma, ma anche nell’hinterland e nelle altre quattro province. Voglio citare per tutte le condizioni del Centro di assistenza per i richiedenti asilo (Cara) di Monterotondo che, proprio nell’ambito del programma di cambiamento che vogliamo mettere a punto, ho avuto modo di visitare pochi giorni prima della sciagura che ora richiama tutta l’Italia alle sue responsabilità. Ne ho avuto l’ennesima conferma che non c’è neanche un’ora da perdere per cercare di cambiare le cose: non ha senso mantenere in piedi il sistema attuale, che non assicura né assistenza né accoglienza”.
“La nuova legge che andremo a varare, spero nel tempo più rapido possibile – aggiunge Enrico Forte – oltre a cercare di dare risposte adeguate ai problemi citati dall’assessore Visini, può mirare a mio avviso anche a un obiettivo più alto: diventare la base di discussione non solo su tutto il sistema di accoglienza, locale e nazionale, ma su quello che c’è a monte. In una parola, sui rapporti e sulle politiche nazionali ed europee nei confronti del Sud del mondo. In particolare dei paesi africani dai quali arriva la maggioranza dei rifugiati e dei paesi di transito, come la Libia o l’Egitto. Penso, ad esempio, a corridoi umanitari per l’emigrazione, in modo da tagliare il terreno sotto ai piedi dei trafficanti di esseri umani. Ma anche a una maggiore attenzione per gli interessi e le esigenze delle popolazioni di quei paesi. Interessi ed esigenze che non sempre corrispondono a quelli dei governi e alle scelte fatte dalla politica occidentale in quelle realtà. E’ solo un sogno? Può darsi. Ma mi piace sognare che la rivoluzione dell’accoglienza e dei rapporti tra Nord e Sud del mondo sollecitata con forza anche da papa Francesco, possa partire almeno in parte dal Lazio. Dire, insomma, ‘noi nel Lazio facciamo così’, voi che cosa fate?”.
L’idea alla base della legge che si intende impostare è quella di smantellare, in pratica, l’attuale sistema che ha portato a creare centri di accoglienza enormi, diventati pressoché ingestibili, e che di fatto abbandona i profughi al loro destino o, peggio, offre il destro a speculazioni, iniziative e abusi che non di rado hanno richiamato anche l’attenzione della magistratura. Il modello potrebbe essere quello della Svizzera o di vari paesi del Nord Europa, come la Svezia, dove non esistono strutture simili ai nostri Cara: i rifugiati, una volta ottenuto dallo Stato il diritto alla protezione internazionale, vengono presi in carico dalle varie regioni, che li distribuiscono su tutto il territorio in piccoli gruppi, seguendone passo per passo il percorso di inserimento lavorativo e sociale e cercando di garantire loro la massima autonomia. In estrema sintesi, l’obiettivo è quello di farli sentire “persone”, ciascuno con la propria storia e la propria voglia di ricominciare, e non massa anonima, destinata a finire di fatto in una sorta di ghetto.
“Non deve più accadere – ha insistito don Zerai – che i profughi, dopo che la loro richiesta di asilo è stata accettata, vengano di fatto abbandonati, con un biglietto del treno in tasca e l’invito a recarsi da qualche parte in Italia. Magari a Roma. Perché questo accade oggi in quasi tutti i Cara d’Italia. Anche per questo consiglio ad ‘andare a Roma’, la situazione della Capitale è diventata esplosiva, con migliaia di disperati ai quali lo Stato italiano ha riconosciuto la protezione internazionale ma che di fatto sono stati lasciati in balia di se stessi, ‘invisibili’ condannati a vivere in rifugi di fortuna e a finire fatalmente nel giro dello sfruttamento e del lavoro nero”.
Secondo le ultime stime, riferite alla fine dell’incontro all’assessorato da don Zerai, si calcola che a Roma ci siano oltre duemila profughi alloggiati alla meglio in vari palazzoni in disuso occupati o nelle baraccopoli. In particolare, oltre 1.200 in un edificio, già dell’Università di Tor Vergata, alla Romanina; circa 600 sulla via Collatina; qualche centinaio nel campo “spontaneo” di Ponte Mammolo, sull’Aniene, oltre a una serie di insediamenti minori. Più di duemila “non persone” prive di diritti. E le condizioni dei tantissimi alloggiati nel Cara di Monterotondo non sono molto dissimili. “Non per niente – ha spiegato don Zerai – a migliaia rifiutano le grandi strutture di accoglienza: lì dentro spariscono come persone e non vedono alcuna prospettiva. ‘Passiamo il tempo a non far niente o magari a litigare tra di noi’, mi hanno detto in molti. Fuori, pur nelle condizioni difficilissime in cui vivono, riescono ancora a coltivare la speranza di riuscire almeno a trovare un lavoro”.

La nuova legge regionale punta a cambiare tutto questo. Per riempirla di contenuti e  individuarne le direttive, l’assessorato intende coinvolgere anche le organizzazioni che, come l’agenzia Habeshia, operano sul territorio, a Roma e nel Lazio, a contatto diretto con questa drammatica realtà. La prossima settimana, intanto, è in programma l’ispezione di Enrico Forte ed altri consiglieri regionali nei maggiori edifici “invasi” e nelle baraccopoli per un confronto diretto con i rifugiati: l’obiettivo è stilare un dossier da porre alla base delle ragioni a sostegno della riforma radicale del sistema di accoglienza in tutto il Lazio.  

domenica 6 ottobre 2013

I superstiti di Lampedusa e i profughi “invisibili” di Roma

di Emilio Drudi

“Voglio annunciare che Roma prenderà un’iniziativa concreta: i 155 superstiti saranno accolti qui, grazie alla collaborazione del ministero dell’Interno”: lo ha detto il sindaco Ignazio Marino durante la veglia in ricordo delle vittime della tragedia di Lampedusa, assicurando che il Campidoglio si farà carico direttamente del programma di aiuti e assistenza immediato e futuro. Sono già state indicate soluzioni per le necessità più urgenti, a cominciare dall’alloggio: i profughi saranno ospitati in due strutture appartenenti al Comune. Per vestiario, beni di prima necessità, ecc. si sta provvedendo a cura dei servizi sociali capitolini e con l’aiuto di volontari e varie organizzazioni umanitarie. Lo stesso Marino ha spiegato le ragioni di questa scelta: “Il destino dei migranti – ha detto – è anche il nostro. Io dico basta ai messaggi di cordoglio ai quali non seguono azioni tangibili, perché è solo ipocrisia”. Sulla stessa linea il presidente della Regione, Nicola Zingaretti il quale, oltre ad assicurare il suo sostegno all’iniziativa, ha ampliato il discorso, invocando “leggi più umane e più civili” per costruire in Italia e in Europa un sistema di accoglienza più efficiente e, soprattutto, più vicino ai bisogni reali dei migranti.
Può essere finalmente l’inizio di un discorso nuovo. Il punto di svolta sollecitato con forza, direttamente da Lampedusa, dal sindaco Giusi Nicolini e dalla presidente della Camera Laura Boldrini (non a caso due donne da sempre in prima linea nella battaglia sui diritti dei profughi), per fare in modo che d’ora in poi le cose cambino veramente. Per un domani diverso. Ecco perché appare nobile e di grande spessore umano e civile la decisione del sindaco Marino. Di più: è anche una risposta netta ai tanti distinguo che già cominciano ad emergere, dopo il coro di parole di cordoglio e la profusione di lacrime “pubbliche”. A cominciare dai tanti tentennamenti e dalle resistenze all'abrogazione della legge Bossi-Fini. Quella legge assurda che, come primo atto, nel momento stesso in cui i sopravvissuti sono sbarcati con negli occhi l’orrore che stavano vivendo, li ha incriminati per immigrazione clandestina. E che minaccia di mettere sotto accusa per favoreggiamento dello stesso reato chiunque presti soccorso e porti a terra migranti naufragati in pieno Mediterraneo o intercettati, stipati a centinaia, su carrette non più in grado di reggere il mare. Basti citare il discorso fatto alla Camera dal ministro degli interni Angelino Alfano, che è tornato a parlare di “difesa” delle frontiere, come se l’Italia e l’Europa avessero di fronte un esercito armato di invasori e non disperati in cerca di aiuto per sottrarsi a guerre e persecuzioni, a carcere e torture. In una parola, per poter sopravvivere.
Eppure, resta un “però”. La decisione e l’appello del sindaco sarebbero stati forse ancora più significativi ed efficaci o, meglio, più davvero “rivoluzionari”, se accanto ai 155 superstiti di Lampedusa fossero stati messi anche tutti gli altri profughi abbandonati a se stessi a Roma. Ce ne sono a decine, a centinaia. Hanno ottenuto il riconoscimento dello status di rifugiato e il diritto alla protezione internazionale, ma poi nessuno si è più ricordato di loro. Cancellati come se non esistessero. “Non persone” condannate a trascinare i loro giorni nei rifugi di fortuna degli “invisibili”, da usare al massimo come manovalanza in nero, salvo a riemergere di colpo “visibili”, anzi, ad essere messi sotto i riflettori, quando se ne occupa la cronaca nera: allora diventano i “responsabili” di tutto, il “capro” su cui scaricare colpe e frustrazioni che in realtà con loro non hanno nulla a che fare.
E’ emblematico a questo proposito il caso, esploso qualche anno fa, dell’ex consolato della Somalia. Nella grande villa liberty sulla via Nomentana, a due passi da Porta Pia, che ospitava gli uffici diplomatici, chiusi e abbandonati dopo la caduta del dittatore Siad Barre e la disgregazione della Repubblica Somala, avevano trovato rifugio numerosi profughi. Soprattutto somali, etiopi ed eritrei. Una “invasione” che si è protratta a lungo, in condizioni di assoluta indigenza e insicurezza, in pratica senza servizi, con uno o due bagni al massimo per tutti e persino quasi senz’acqua. Una bomba pronta a scoppiare nel cuore della città, anche perché in quella villa, dopo i richiedenti asilo che avevano promosso inizialmente l’occupazione, si erano stabiliti nei mesi successivi pure personaggi equivoci di ogni genere, minacciando e spesso pestando a sangue chiunque cercasse di opporsi. Lo sapevano tutti. Polizia e vigili urbani, e quindi Governo e Comune, non potevano non sapere. Però nessuno è intervenuto e non se ne è mai parlato. Fino a quando non si è verificato un episodio drammatico, lo stupro di una ragazza che aveva seguito un amico in quella “casa di disperati” trasformata in polveriera. Allora, di colpo, la città ha scoperto quel gorgo di umanità sconfitta con il quale aveva convissuto indifferente sino a quel momento e ne è scoppiato il solito, effimero “scandalo”. La vicenda ha riempito per qualche giorno le cronache, si sono rincorse le immancabili dichiarazioni di fuoco contro il “pericolo dei migranti”, la villa è stata evacuata, gli occupanti identificati uno per uno. Scoprendo che tra di loro c’erano molti profughi che, indirizzati a Roma dai centri di accoglienza del Sud Italia con in tasca solo un biglietto ferroviario e qualche euro, non avevano trovato altra strada che cercare riparo in quegli uffici abbandonati e arrangiarsi con lavori in nero per sopravvivere. Rifugiati regolari eppure soltanto “fantasmi” per le istituzioni italiane. Poi il clamore si è placato e il problema è rimasto irrisolto. Si è solo spostato. I profughi si sono trasferiti in altri ricoveri di fortuna: alcuni nelle baraccopoli di periferia, soprattutto quella sorta a Ponte Mammolo, sugli argini dell’Aniene; altri, ancora di più, in un palazzone in disuso alla Romanina, già occupato da centinaia di disperati come loro. Di nuovo invisibili in mezzo ad altri invisibili. Specie per chi non vuole vedere e si ostina a chiudere gli occhi.
Gli occhi delle istituzioni e dei media sono rimasti ostinatamente chiusi anche quando Nils Muiznieks, commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, all’inizio dell’estate 2012 ha scritto un rapporto di fuoco, dopo aver constatato di persona come sono costretti a vivere quegli uomini e quelle donne a Roma, in realtà come l’edificio cadente della Romanina o il campo di baracche e di tende di Ponte Mammolo ed altre ancora: sulla via Collatina, ad esempio, e in altre zone della più estrema periferia. Ogni tanto, tuttavia, qualcosa gli occhi costringe ad aprirli. Anche a chi non vorrebbe guardare. Qualche mese fa ci ha pensato l’Herald Tribune, con un’inchiesta giornalistica che, partendo dal caso della Romanina, ha portato in prima pagina lo sbando a cui sono condannati, nella capitale d’Italia, centinaia di rifugiati ed altri migranti. Un servizio che ha fatto il giro d’Europa, inducendo la Commissione per i diritti umani e l’Assemblea di Bruxelles a chiedere ancora una volta conto all’Italia della sua politica di accoglienza. Il governo ha risposto con l’impegno, da parte dell’allora ministro degli interni Anna Maria Cancellieri, a varare subito interventi di emergenza, oltre che un piano futuro più vasto di “inclusione sociale”. In realtà, non è stato fatto nulla o quasi: quei profughi sono sempre lì, a popolare da invisibili quei palazzoni semi diroccati e quelle baraccopoli. Ancora non persone abbandonate da tutti.
Ecco il punto. E’ vero che si tratta di episodi accaduti e denunciati prima che Ignazio Marino diventasse sindaco di Roma. Ma, ammesso che non gliene sia arrivata almeno un’eco quando era al Parlamento, prima di dimettersi proprio per proporsi come guida della Capitale, nell’amministrazione pubblica c’è comunque una continuità e c’è da credere, bisogna credere, che qualcuno in Campidoglio lo abbia informato di quelle situazioni dimenticate. Adesso che è lui il sindaco di Roma quel problema è diventato un suo problema. Urgente come quello dei 155 superstiti di Lampedusa. Anzi, è esattamente lo stesso problema: il dramma di centinaia di uomini e donne che hanno diritto alla protezione internazionale, con alle spalle storie del tutto simili a quelle dei fratelli appena arrivati. Gente che non di rado solo il caso ha portato viva sulle sponde italiane e non sepolto in fondo al Mediterraneo. L’unica differenza è che il capitolo Lampedusa occupa ancora, come è giusto, le pagine di tutti i giornali e sta scuotendo le coscienze nell’Europa intera, mentre i campi spontanei di Roma sono stati fatti sparire a poco a poco sotto una spessa coltre di “silenziamento”.

Allora, se davvero si vuole voltare pagina nella politica dell’accoglienza e si è convinti che dall’ecatombe di Lampedusa in poi il rapporto con i migranti in Italia e in Europa non potrà più essere quello che è stato finora, non ci si può limitare a seguire l’emozione del momento. Proprio per le parole che ha detto alla veglia in ricordo delle ultime vittime di questa tragedia italiana ed europea, a Marino non è concesso perdere l’opportunità di estendere il suo progetto di amicizia, prima ancora che di assistenza, a tutti i profughi e i rifugiati ospiti della sua città. E’ difficile? Certo che lo è: anzi, è molto difficile. Lo dicono le resistenze che già si manifestano a vari livelli, a cominciare dal Parlamento e da quasi tutta la destra politica. Ma Marino può farcela perché avrà al suo fianco l’Italia migliore e perché è una battaglia giusta. Da combattere spendendo tutta l’autorità e il prestigio che ha come sindaco della Capitale per coinvolgere altri comuni, la Provincia, la Regione, il ministero degli interni, lo stesso governo. La nuova politica dell’accoglienza, invocata da tantissimi nel Paese, può cominciare proprio da qui: da Roma e dal Lazio.

sabato 5 ottobre 2013

La Storia

Odissea degli Eritrei
Le scrivo per far conoscere la storia dimenticata dagli Italiani e cercare di far capire il legame che c’è tra gli Eritrei e gli Italiani.
Io sono Eritrea e mi sono laureata a Milano in Scienze Politiche, con una tesi dal titolo: “Gli Ascari Eritrei nella Storia Coloniale Italiana” che ha lo scopo di raccontare, in maniera il più possibile imparziale, il periodo coloniale italiano che va dal 1885 al 1941.
Gli Eritrei furono mandati a combattere in Somalia, in Libia e in Etiopia per il colonialismo italiano.
Decine di migliaia morirono combattendo per la Bandiera Italiana in tutte le battaglie che l’Italia combatté in Africa.
Essi servirono fedelmente la Bandiera Italiana perché si sentivano appartenenti alla nazione italiana, dal momento che l’Eritrea è stata una colonia italiana per più di 55 anni.
Non ci sarebbe stato alcun colonialismo italiano senza gli Ascari Eritrei.
Nel 1935-36 gli Italiani arruolarono il 40% della popolazione attiva tramite leva obbligatoria (quasi 60.000 giovani). Gli Inglesi avevano stabilito che non fosse possibile impiegare nell’esercito un numero di individui superiore al 9% della popolazione attiva senza danneggiare seriamente l’economia locale.
Nella sola battaglia di Cheren (Marzo 1941), 9.000 Eritrei persero la vita per difendere l’Italia dagli Inglesi. Oltre 20.000 furono i feriti e nessuno ricevette né cure né riconoscimenti di alcun genere da parte dell’Italia.
L’ignoranza della storia fa sì che gli Eritrei, nipoti e figli degli Ascari, oggi non abbiano alcun vantaggio né privilegio in Italia, a differenza delle altre nazioni coloniali che hanno un occhio di riguardo per le persone appartenenti alle loro ex-colonie.
E’ una vergogna che gli Eritrei vengano trattati indifferentemente e non aiutati.
Oltretutto, gli Eritrei, che sbarcano in Italia, sono per la maggior parte Cristiani (Ortodossi e Cattolici) e gli Eritrei, già presenti sul territorio italiano, rispettano le leggi italiane, come tutte le statistiche evidenziano.
Gli Eritrei sono perseguitati in Libia perché i Libici li considerano i figli ed i nipoti degli Ascari eritrei che li sconfissero durante la conquista della Libia nel 1911 e nel 1927 da parte degli Italiani e perché sono Cristiani.
In Libia, gli Eritrei sono rapiti, torturati, massacrati e le donne vengono stuprate e costrette ad abortire. L’unica vera loro via di fuga è quella di prendere un barcone (pagando migliaia di euro) e cercare di venire in Italia.
Ma in Italia, paese che dovrebbe essere civile e cristiano, non trovano nessun tipo di accoglienza da parte delle istituzioni, a parte il primo soccorso, nonostante accordi e trattati internazionali firmati dall’Italia.
Conoscendo “l’ospitalità italiana”, la maggior parte degli Eritrei, in ogni caso, cerca di lasciare l’Italia e andare in altri paesi europei.
A proposito degli Eritrei, il Barone Guillet, ufficiale e ambasciatore italiano, disse:
“Gli Eritrei furono splendidi. Tutto quel che potremo fare per l'Eritrea non sarà mai quanto l'Eritrea ha fatto per noi”.

ASCARI E LAVORATORI
da L’Eritrea di Massimo Rava (1927)
La nostra indagine sull’Eritrea non può finire qua. Resta a parlare dei meravigliosi battaglioni di ascari eritrei, onusti di gloria e di allori conquistati su tutti i campi di tutte le nostre colonie. Ancor ieri questi battaglioni fra le palme di Giarabub. E il giorno in cui si volle procedere all’occupazione dei sultanati somali, ancora e sempre, sono stati chiamati i battaglioni eritrei a conquistare e mantenere i territori contesi dai ribelli. L’armata di colore italiana trova il suo fulcro nella piccola Eritrea. Non vi è che questa colonia che possa gettare battaglioni su battaglioni, composti di truppa di primissimo ordine, per le spedizioni d’oltremare. Del resto, a che pro’ dilungarci su questo argomento? Qui non c’è nulla da dire che non sia stato detto. Perché, grazie al cielo! Non vi è mai stato alcuno che abbia parlato o scritto sull’Eritrea, il quale non abbia almeno ricordato queste truppe coloniali, scaturite a maggior gloria d’Italia dalle viscere della fedele popolazione eritrea.
Se mai, se qualche cosa di nuovo si può ancora dire, è che esiste un rovescio della medaglia, il quale non offre nulla di abbastanza brillante perché su esso debbano soffermarsi le prose giornalistiche, troppo sovente amiche della teorica. Chi ha mai rilevato infatti che la continua annua sottrazione delle masse necessaria ai contingenti da inviare in Libia - diverse migliaia di uomini validi, robusti, giovani - costa all’Eritrea un impoverimento demografico che va a danno del suo progresso economico? Eppure chi non sa - per poco che si occupi di problemi coloniali - che nell’opera di valorizzazione delle colonie africane il problema fondamentale, il problema-base, sempre più assillante, è precisamente il problema demografico?
Quasi tutta l’Africa è assai povera di braccia, e laddove, come in Eritrea, non è possibile creare delle colonie di popolamento, bisogna pur contare sui nativi per la mano d’opera necessaria a metterne in valore le molteplici risorse naturali. Sottrarre uomini all’Eritrea è sottrarle ricchezza, significa toglierle della materia prima preziosissima. Ma chi ha mai pensato a tutto questo? Chi ha mai pensato, cioè, che di questa materia prima indispensabile, l’uomo, l’Eritrea potesse avere bisogno per sé, per il suo sviluppo e per il suo avvenire?

giovedì 3 ottobre 2013

Le tragedie di Lampedusa e Ragusa: non basta piangere

di Emilio Drudi

“Venga a contare i morti con me”: lo ha chiesto Giusi Nicolini, il coraggioso sindaco donna di Lampedusa, ad Enrico Letta. Già, non basta considerare che quella che si è consumata in una lucida alba autunnale ad appena 800 metri dall'isola, è “una tragedia immane” come ha dichiarato il premier. Occorre ammettere, piuttosto, che è innanzi tutto una tragedia annunciata. Certo, è la strage più grande mai registrata in Italia nella dolorosa storia dell’emigrazione dall'Africa. Ma è solo l’ultima di una lunga catena di tragedie simili, che hanno fatto del Mediterraneo un cimitero di disperati senza nome. E forse, per rendersene conto e decidere così di porre fine al massacro, il modo migliore di cominciare è proprio quello di andare a contare e a seppellire gli ultimi morti a Lampedusa: la porta dell’Europa per chi scappa dall'Africa, scacciato da guerre e persecuzioni, il piccolo lembo di terra che papa Francesco ha scelto non a caso come meta del primo viaggio ufficiale del suo pontificato, per lanciare ai potenti della terra un appello a cambiare la loro politica nei confronti del Sud del Mondo. Perché è questa politica a creare le condizioni che costringono migliaia e migliaia di giovani ad abbandonare il proprio paese, i propri cari, tutta una vita.
Quello di Giusi Nicolini non è un atto d’accusa isolato. Meno di una settimana fa il Consiglio d’Europa di Strasburgo ha criticato di nuovo duramente la politica migratoria italiana, giudicando “sbagliate e controproducenti” le misure adottate in questi ultimi anni. Appare evidente il riferimento ai respingimenti indiscriminati in mare e ai trattati bilaterali con la Libia. Misure – dice Strasburgo – non in grado di “gestire un flusso che è e resterà continuo”. Parole pesanti. Tanto più pesanti se si pensa che il nostro Paese ha già formalmente subito due condanne per come ha affrontato il problema: la prima nel febbraio 2011 da parte della Corte europea per i diritti umani in relazione ai respingimenti nel Canale di Sicilia; la seconda, pochi mesi dopo, proprio su iniziativa del Consiglio di Strasburgo, per il dramma dei 63 profughi abbandonati a morire di sete e di stenti a bordo di un gommone alla deriva per un’avaria al motore. Un episodio incredibile, quest’ultimo, per il quale ancora nessuno ha pagato: la Procura militare ha aperto un’inchiesta, ma non risulta che qualcuno sia stato condannato e comunque i responsabili politici non sono stati neanche sfiorati dal processo.
Alla luce di tutto questo, se non si adottano subito provvedimenti concreti per arrivare a una netta, rapida inversione di tendenza nella politica migratoria e per l’accoglienza, il dolore e il lutto dichiarati appaiono per molti versi un’ipocrisia. Non ha senso ed è anzi colpevole continuare sulla falsariga di oggi e del passato. Proprio all'inizio dell’estate, quattro giorni prima dell’appello lanciato da papa Francesco a Lampedusa, il governo Letta ha confermato alla Libia il ruolo di “gendarme del Mediterraneo” per il controllo dell’emigrazione. Lo stesso ruolo conferito a Tripoli dagli accordi firmati da Berlusconi nel 2009 e ribadito da quelli siglati da Monti nel 2011, all'indomani delle due condanne europee.
Il presidente Napolitano ha parlato di “strage degli innocenti”. E’ così: è proprio l’ennesima strage degli innocenti ingoiati dal nostro mare. Ma questa denuncia perde ogni significato se l’Europa e in primo luogo l’Italia non decidono di abbattere il muro sempre più alto che hanno costruito alle loro frontiere per tenere lontani quegli innocenti. Considerandoli di fatto “invasori” e non vittime in cerca di scampo. Don Mussie Zerai, il portavoce dell’agenzia Habeshia, non fa sconti a questo proposito. Da anni denuncia la tragedia dei profughi, le violenze che si consumano quotidianamente in Libia, il traffico di uomini e donne, l’orrore del mercato di organi per i trapianti clandestini. E segnala che senza una nuova, più umana politica dell’accoglienza in Italia e nell'Unione Europea, non se ne esce. Ora torna alla carica, rilanciando la battaglia che lo ha portato anche alla Casa Bianca su invito dell’allora segretario di stato Hillary Clinton e più volte all’Assemblea di Bruxelles, in audizione speciale di fronte alle Commissioni interni e per i diritti umani, alle quali ha consegnato un dossier esplosivo sulle condizioni dei centri di detenzione libici e, più in generale, sul trattamento riservato ai migranti da Tripoli.
“Due tragedie in una settimana, centinaia di morti, ci lasciano senza parole – dice affranto, controllando a stento l’emozione – Ma vogliamo urlare che queste tragedie si sarebbero evitate se fossero stati ascoltati gli appelli che da anni lanciano Habeshia, Amnesty, tante altre organizzazioni umanitarie. O, almeno, la voce del Santo Padre. Vanno cambiate, rese più umane, le leggi che regolano i rapporti tra il Nord e il Sud del mondo. Serve un impegno comune per rendere l’Africa vivibile. In Africa, la mia terra, si sta verificando un esodo di proporzioni bibliche. I morti di Lampedusa e Ragusa sono un capitolo di questo esodo: sono giovani fuggiti dalla guerra in Somalia, da un regime dispotico in Eritrea, dalla fame in Etiopia. L’Italia ha precise responsabilità. I trattati bilaterali che ha firmato a più riprese con Tripoli, l’ultimo appena tre mesi fa, hanno avuto come unico risultato quello di favorire i trafficanti di uomini e i militari o i miliziani corrotti che si stanno arricchendo sulla pelle dei profughi. I centri di detenzione libici sono affollati di disperati: basta pagare per essere liberati e riempire altri barconi, ‘carrette’ che tentano la traversata del Mediterraneo senza alcun criterio di sicurezza, col rischio di perpetuare all’infinito drammi come quello che stiamo piangendo in queste ore”.
L’unica soluzione immediata, a giudizio di don Zerai, è cambiare radicalmente la politica dell’accoglienza. “La stragrande maggioranza dei giovani in fuga dall'Africa – spiega – hanno i requisiti per ottenere lo status di rifugiato. Serve allora un progetto comune europeo per i richiedenti asilo: una specie di corridoio umanitario protetto per chi ha bisogno della protezione internazionale. Solo se si creano strumenti di ingresso legale in Italia e in Europa si potrà combattere davvero e stroncare il traffico di esseri umani, sottraendo migliaia di disperati dalle mani di organizzazioni criminali sempre più potenti e diffuse. L’Unione Europea finora ha fatto esattamente il contrario, chiudendo le porte in faccia a chi chiedeva il suo aiuto, preoccupata solo di proteggere la sua ‘fortezza’. Ma di fronte alla disperazione non c’è fortezza che possa reggere. Bisogna invece lavorare per prevenire ed eliminare le cause di tanta disperazione: le dittature, le guerre, la fame che costringono intere generazioni a fuggire. E per pretendere dai paesi di transito come la Libia il rispetto dei diritti umani: molti africani sub sahariani rimarrebbero a lavorare in Tripolitania o in Cirenaica se non fossero discriminati per il colore della pelle o per la fede cristiana oppure costretti a una condizione di schiavitù sul lavoro”. 
La conclusione è amarissima: “Queste tragedie sono ogni anno più frequenti. Eppure, passata l’emozione del momento, vengono presto dimenticate. I responsabili dei governi europei esprimono il loro cordoglio, prendono impegni e poi tutto resta come prima, abbandonando i familiari delle vittime al loro dolore e lasciando senza risposta una domanda che ne lacera il cuore: ‘Dov'è finita la solidarietà che gli Stati si sono impegnati ad assicurare ai profughi e ai rifugiati in base alle convenzioni internazionali che loro stessi hanno promosso e firmato?’. Ecco, dov'è finita? Chiediamo che l’Europa agisca in fretta. Si è già perso troppo tempo prezioso. Ed ogni giorno perso è contrassegnato dalla perdita di vite umane, sofferenze, soprusi”.
In fretta. Bisogna fare in fretta, insiste don Zerai. E invece, proprio in questi giorni, mentre maturavano le condizioni che hanno portato alle stragi di Lampedusa e Ragusa, una delegazione militare italiana è stata in Libia per dare ancora più consistenza al trattato bilaterale, con la consegna, a quanto pare, dei mezzi navali e terrestri richiesti da Tripoli e per impostare i programmi di addestramento della polizia. Ancora una volta senza tener conto la Libia non ha mai firmato la convenzione di Ginevra del 1951 sulla tutela e i diritti dei rifugiati. Che la Libia tratta i profughi e i migranti come criminali, gettandoli in prigioni che solo la nostra ipocrisia può definire campi di accoglienza. Che la Libia non fa nulla per arginare la violenza xenofoba e razzista esplosa nel paese contro gli “africani neri” dopo la caduta di Gheddafi. Che la Libia non ha alcun rispetto dei diritti umani.

“Pagando un riscatto variabile tra i mille e i duemila dollari – hanno raccontato a don Zerai diversi profughi – si può essere liberati dai centri di detenzione. I miliziani stessi talvolta indicano come arrivare agli scafisti sulla costa. O, in ogni caso, è evidente che chi può uscire dai quei campi poi cercherà un passaggio in mare verso l’Italia, pagando dai 3 ai 5 mila dollari. I più fortunati riescono a passare. Per molti altri il Canale di Sicilia diventa la loro tomba. Altri ancora, intercettati prima di imbarcarsi o in mare oppure respinti dalle navi italiane, vengono ricondotti in carcere e il ciclo ricomincia…”. Di fronte a racconti di questo genere ha senso limitarsi a spargere lacrime per l’ennesima tragedia consumata alle soglie o in vista delle nostre coste?

Pain for the massacre of migrants died in the Strait of Sicily

Agency Habeshia : - We are crushed by grief at the death of our migrant brothers and sisters died , hoping to reach the promised land . In one week, two tragedies that leave us speechless , we express our sympathy and condolences to their families.
But we want to say to the leaders of nations the responsibility for these tragedies were avoidable if you listen to the calls we do for years, if you would have heard the call of the Holy Father Francis. To humanize the laws that govern the relationship north and south of the Mediterranean , we need a common commitment to making the Horn of Africa livable, all these deaths come from that area because they are desperate because of the political situation of the despotic regime in Eritrea , Hunger in Ethiopia and the War in Somalia.
The bilateral agreements with Libya we see the result we have only favored the traffickers and corrupt Libyan military or militias that are getting rich on the skin of the desperate . The detention centers in Libya are filled with other desperate , just pay will soon be released, we will have more boats coming up with possible tragic events we are crying now .

The solution would be for Europe to put in place a project for the reception of asylum seekers and refugees , opening a humanitarian corridor protected for those in need of international protection , only with instruments for legal entry , you can subtract thousands of desperate people from the hands of traffickers . Not closing the door in the face to those who come to ask for protection , up to now Europe thinks only protect your fortress , but when so much despair around if we do not take that fortress . It was necessary and we must work to prevent the causes of so much despair , dictatorships , wars, famine that drive thousands to flee , we must act on those nations that use immigration as an outlet to avoid "spring and revolutions " in their own home . pieces was involved in facilitating the immigration of their citizens. We must demand from transit countries such as Libya respect for human rights , respect for workers , many sub-Saharan Africans would remain to work in Libya if they were not discriminated against because of skin color, for the Christian faith , for the condition of slavery in the place working .
Every year we see these tragedies to world leaders express their displeasure but everyone ends up in oblivion, moms, wives , husbands, children who have lost their family continue to mourn continue to ask why this happened where's the solidarity , the protection of refugees and displaced persons , victims of human trafficking .
We call for Europe to act quickly too has already lost a lot of precious time that would save many of these lives.

Dolore per la strage dei migranti morti nel canale di Sicilia

Agenzia Habeshia:- Siamo affranti dal dolore per la morte dei nostri fratelli e sorelle migranti morti sperando di raggiungere la terra promessa. In una settimana due tragedie che ci lasciano senza parole, esprimiamo tutta la nostra vicinanza e il cordoglio per le loro famiglie.
Ma vogliamo dire ai responsabili delle nazioni la responsabilità di queste tragedie che erano evitabili se ascoltate gli appelli che facciamo da anni, se avreste ascoltato l'appello del del Santo Padre Francesco. Rendere più umane le leggi che regolano il rapporto nord e sud del mediterraneo, serve un impegno comune per rendere il Corno d'Africa vivibile, tutti questi morti provengo da quell'area perché sono disperati a causa della situazione politica di regime dispotico in Eritrea, la Fame in Etiopia e la Guerra in Somalia.
Gli accordi bilaterali con la libia si vedono il risultato che hanno solo favorito i trafficanti e militari o milizie libiche corrotti che si stanno arricchendo sulla pelle dei disperati. I centri di detenzione in libia sono pieni di altri disperati, basta che pagano saranno presto rilasciati, avremo altri barconi in arrivo con possibili eventi tragici di cui stiamo piangendo ora.
La soluzione sarebbe che l'Europa metta in campo un progetto di accoglienza per i richiedenti asilo e rifugiati, aprendo un corridoio umanitario protetto per chi è bisognoso di protezione internazionale, solo con strumenti di ingresso legale si possono sottrar migliaia di disperati dalle mani dei trafficanti. Non chiudendo le porte in faccia a chi arriva a chiedere protezione, fino ad oggi l'Europa pensa solo a proteggere la Sua fortezza, ma quando intorno a se ce tanta disperazione non ce fortezza che tenga. Bisognava e bisogna lavorare per prevenire le cause di cosi tanta disperazione, le dittature, guerre, fame che spingono migliaia a fuggire, bisogna intervenire su quelle nazioni che usano l'immigrazione come valvola di sfogo per evitare "primavera e rivoluzioni" in casa propria. pezzi di stato coinvolti nel favorire l'immigrazione dei loro cittadini. Bisogna pretendere da paesi di transito come la libia il rispetto dei diritti umani, il rispetto dei lavoratori, molti africani sub sahariani rimarrebbero a lavorare in libia se non fossero discriminati per colore della pelle, per la fede cristiana, per la condizione di schiavitù nel posto di lavoro.
 
Ogni anno assistiamo a queste tragedie i responsabili delle nazioni esprimono il loro dispiacere ma tutti finisce nel dimenticatoio, le mamme, mogli, mariti, figli che hanno perso il proprio famigliare continuano a piangere continuano a chiederci perché successo tutto questo dove è finita la Solidarietà, la protezione dei profughi e rifugiati, delle vittime di traffico di esseri umani.
Chiediamo che l'Europa agisca anche in fretta si è già perso molto tempo prezioso che avrebbe salvato molte di queste vite umane.
don Mussie Zerai