martedì 2 aprile 2013

Sirte, i profughi eritrei utilizzati per sminare il terreno


Detenuti sub-sahariani trattati come carne da macello dai poliziotti libici, usati per sminare senza alcuna preparazione gli ordigni della guerra civile. E centri di detenzione di nuovo pieni di centinaia di potenziali rifugiati in spregio alle leggi internazionali. La loro colpa è essere entrati illegalmente nel Paese, con l’aggravante della pelle scura e della religione cristiana. Ma l’Europa e l’Italia non battono ciglio, anzi il nostro Paese potrebbe collaborare con le autorità libiche nel controllo delle frontiere meridionali, in pieno Sahara.
 
Le retate dei migranti avvenute a metà febbraio a Tripoli e Bengasi con le deportazioni di 1.200 persone tuttora detenute a Sebha e Kufra, nel sud, sono solo la punta di un iceberg. Che nasconde traffici di esseri umani e corruzione, condizioni detentive inumane, l’utilizzo di profughi arrestati per immigrazione illegale in operazioni di sminamento a Sirte. Lo denuncia Human rights concern, organizzazione con sede a Londra fondata da esuli eritrei per la tutela dei rifugiati. La direttrice, Elsa Chyrum, ha rivelato di aver ricevuto dai prigionieri diversi resoconti di abusi compiuti dalle forze di sicurezza tripoline.

Il primo caso riguarda 76 eritrei usati per operazioni di sminamento a Sirte, dove, sostiene Human rights concern, «i rifugiati sono costretti ogni giorno a sminare nonostante siano privi di addestramento. Un trattamento inumano, le persone sono usate come se fossero pezzi di ricambio». Ai profughi è stato negato ogni contatto con l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati Secondo l’organizzazione umanitaria degli esuli eritrei, altri 400 connazionali sono stati sequestrati dai trafficanti dal Sudan alla Libia e portati ad Ajdabiya, vicino a Benqasi. Più di 120 rifugiati avevano già pagato 1.700 dollari di riscatto ciascuno, mentre altri 400 sono detenuti in condizioni degradanti, con poco cibo e maltrattamenti.

«Se è tollerato un sequestro di tali dimensioni – accusa Chyrum – allora le autorità non possono essere che complici». Chyrum conferma che ci sono eritrei detenuti in isolamento in quattro prigioni: a Salma vicino a Tripoli ce ne sono 81, a Khums, sempre nei pressi della capitale, il numero di prigionieri è ignoto come a Zuwara. Mentre a Kufra, centro pagato con fondi italiani alla metà dello scorso decennio, sono rinchiusi almeno 300 detenuti. Infine a Sabha, i cui detenuti ci hanno contattato a fine febbraio, sono rinchiusi circa 1.200 rifugiati. Alcuni sono riusciti a corrompere i carcerieri con 500 dollari riacquistando la libertà e un passaggio per Tripoli. Per gli altri non ci sono prospettive. 

In queste condizioni non è difficile prevedere che presto riprenderanno le traversate della speranza nel canale di Sicilia.

I governi europei sono preoccupati solo dalla ripresa degli sbarchi. Il 12 febbraio scorso  a Parigi  in occasione della conferenza internazionale su sicurezza e Stato di diritto della Libia l’allora ministro degli Esteri Terzi aveva dichiarato che l’Italia è «fra i primi tre contributori alla sicurezza libica», con 35 progetti in fase di attuazione. Terzi aveva spiegato che il Bel paese ha ben 80 programmi riguardanti la Libia e che dovrebbe occuparsi «soprattutto del controllo ai confini, in particolare quelli meridionali». I precedenti nel Mediterraneo e nel deserto non sono felici, e se la prossima conferenza si terrà a Roma, l’Italia avrebbe l’occasione per rimediare agli errori commessi in un passato recente e sanzionati poco più di un anno fa dalla Corte europea dei diritti umani. 
Paolo Lambruschi

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