martedì 30 novembre 2010

Eritrei uccisi dai trafficanti

Ismail Ali Farah Sei profughi eritrei sono stati massacrati in pochi giorni, nel deserto del Sinai, in Egitto. Da un mese erano prigionieri, insieme ad altri 77, dei trafficanti di esseri umani, che chiedono, per liberarli, 8.000 dollari a testa, dopo averne ricevuti 2.000 per un viaggio mai concluso. Indifferente la comunità internazionale. Sono stati massacrati, questa mattina, a colpi di bastone per dare l'esempio. Erano tre profughi eritrei, colpevoli solo di aver tentato, insieme ad altri 9, di fuggire dai propri sequestratori, che avevano chiesto per la loro liberazione il pagamento di un riscatto di 8 mila dollari. Il gruppo si trova prigioniero nella periferia di un'imprecisata località nel deserto del Sinai, in Egitto. "Secondo quanto mi è stato riferito, i trafficanti non avrebbero intenzione di rilasciarli, anche dopo aver pagato" ha detto don Mussie Zerai, dell'Agenzia Habeshia, in contatto con i familiari delle vittime. In tutto sono 80 persone, tra uomini e donne. Avevano pagato 2.000 dollari ai loro aguzzini per partire da Tripoli, in Libia, e attraversare la frontiera tra Egitto e Israele. La rotta del mare, verso l'Italia, ormai, è chiusa. I trafficanti hanno deciso che sarebbe stato più remunerativo sequestrarli. Così, da più di un mese, i migranti sono segregati anche in 50 per una stanza, malmenati, tenuti con le catene ai piedi, come gli schiavi. "Perché non ci salvate?" chiedono a chi mantiene i contatti con loro. Domenica i loro carcerieri hanno voluto inviare un messaggio alle famiglie, assassinando, con un colpo di pistola alla testa, tre persone. "Si è trattato di un'esecuzione a scopo intimidatorio, per spingere i parenti degli altri a mandare i soldi al più presto" ha detto Zerai, che si dice convinto del fatto che non si debba pagare. "Qualcuno paga qualcosa per non essere malmenato: - spiega il sacerdote - chi 500 chi 1000. Pagamenti che sono, però, solamente un ‘calmante' temporaneo". Nelle stesse case, dove è detenuto il gruppo di eritrei, sarebbero segregati numerosi altri migranti. Si tratterebbe, dunque, di un'organizzazione criminale in grado di trattenere in un centro abitato, centinaia di persone in catene. "L'assurdo - si chiede Zerai - è che non riesco a capire come sia possibile che, in territorio egiziano, ci siano gruppi di persone, che fanno queste cose senza che le autorità lo sappiano. O si trovano al di fuori del loro controllo o c'è una certa complicità. Una delle due cose deve essere". Di certa c'è, per il momento, l'indifferenza. Mercoledì 24 novembre, il senatore Pietro Marcenaro (Pd) ha presentato un'interrogazione parlamentare, ad oggi senza risposta, per chiedere al ministro degli Esteri di verificare la situazione dei profughi eritrei sequestrati in Egitto. "Ho incontrato anche alcuni parlamentari europei, ma il tempo è cruciale. - dice Zerai - Lancio un appello affinché qualcuno intervenga al più presto. Stiamo assistendo al baratto dei diritti: da una parte il governo libico, in questi giorni, chiede 5 miliardi per bloccare le persone, dall'altra i trafficanti ne chiedono 8 mila per farle venire. Si sta giocando sulla pelle di queste persone!" Nigrizia - 30/11/2010

Libia, continua la strage degli eritrei: altri tre uccisi

30 novembre 2010 EMERGENZA IMMIGRAZIONE Il colonnello Gheddafi è tornato a minacciare l’Unione europea. Se non verserà «almeno cinque miliardi di euro», verrà invasa dai flussi migratori africani perché la Libia non intende più fare il guardacoste del Mediterraneo. Intanto con il passare delle ore sta diventando sempre più drammatica la situazione degli 80 profughi eritrei fuggiti da Tripoli e ostaggio dei trafficanti di esseri umani nel deserto del Sinai. Ieri, secondo l’agenzia Habeshia, tre di loro sono stati uccisi perché non hanno pagato un riscatto di ottomila dollari. Aprendo a Tripoli i lavori del vertice Unione africana - Ue, il leader libico ha ribadito ieri per la terza volta in tre mesi ai rappresentanti europei che «la Libia si impegna a fermare l’immigrazione clandestina se fornirete almeno cinque miliardi di euro e l’assistenza tecnica». Finora Bruxelles ha definito la cifra esagerata. Gheddafi, che incontrato il premier Berlusconi, ha elogiato l’Italia, «l’unica a collaborare con noi nel contrasto dell’immigrazione clandestina». In serata si è tenuto un mini summit cui hanno partecipato il presidente della Commissione Barroso e il presidente del Consiglio Europeo Van Rompuy con Berlusconi, il premier portoghese Socrates e lo spagnolo Zapatero. Ma all’Europa ieri è pervenuta anche la richiesta di un intervento urgente per salvare gli 80 profughi eritrei sequestrati nel Sinai, al confine tra Egitto e Israele. Sono fuggiti proprio dalla Libia, unico stato africano a non aver firmato la Convenzione dei diritti umani, dove rischiavano di tornare in carcere come irregolari. Tre di loro, denuncia l’agenzia Habeshia contattata da alcuni parenti dei rapiti, sono stati uccisi perché non hanno pagato il riscatto ai trafficanti di uomini che da più di un mese li tengono segregati incatenati, maltrattati e marchiati a fuoco. Altri tre degli 80 profughi eritrei, prigionieri dei loro trafficanti nel deserto del Sinai da una decina di giorni, sono stati uccisi questa mattina. A denunciare il massacro è padre Mussie Zerai, presidente dell'associazione Habeshia: «Hanno perso la vita nell'indifferenza assoluta delle istituzioni nazionali e internazionali». «Stamattina 12 hanno tentato di fuggire, sono stati presi e bastonati selvaggiamente. Tre di loro non sono sopravvissuti». Gli 80 eritrei stavano cercando di entrare clandestinamente in Israele, ma i loro trafficanti, una volta arrivati nel deserto del Sinai, hanno preteso altri 8 mila dollari in aggiunta ai 2 mila già pagati. In attesa che i parenti inviino i soldi, vengono tenuti incatenati. «Mentre in Libia si mercanteggia sulla pelle dei migranti, chiedendo cinque miliardi di euro all'Europa per bloccare il loro arrivo, in Egitto muoiono in due giorni 6 persone - afferma padre Mussie Zerai - e nessun governo "civile" si è mosso per salvarli». Padre Mussie Zerai rinnova il suo appello ai governi di Italia, Egitto e al Parlmaneot europeo perché salvi i profughi prigionieri nel Sinai. «Chiediamo un intervento immediato dei governi europei e dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite – si legge in un drammatico appello di Habeshia – per salvare queste persone. Non c’è più tempo, sono stremati, i carcerieri sono sempre più violenti». «Non c’è un minuto da perdere – ha rilanciato Christopher Hein direttore del Cir, Consiglio italiano per i rifugiati – la comunità internazionale e l’Egitto non possono stare a guardare mentre si sta compiendo una strage». Il Cir ha lanciato un appello al Consiglio egiziano per i diritti umani, presieduto dall’ex segretario Onu Boutros Ghali e al delegato Acnur in Egitto, Dayri Mohamed, affinché si interessino ai profughi. Ieri al parlamento Europeo si è tenuta un’audizione sulla condizione dei rifugiati eritrei. Ora si attendono risposte umanitarie per garantirne la protezione.

Sequestro dei migranti, un business fiorente

Ci sono 80 persone sequestrate da un mese in condizioni disumane al confine tra Egitto e Israele. Incatenate e torturate da una banda di criminali. Sei sono stati già uccisi, tre di loro a scopo intimidatorio e altri tre perchè avevano tentato la fuga. L’allarme parte dall’Associazione Habesha che attraverso la diffusione della notizia e la mobilitazione sta tentando di salvare la vita al gruppo di eritrei in pericolo. Ma come fanno ad usare il telefono se sono imprigionati e controllati? Padre Mussie che ha ricevuto le chiamate spiega che sono i trafficanti a obbligare i sequestrati a telefonare ai parenti per chiedere il riscatto di otto mila dollari. E fino a che non arrivano i soldi sul conto si rimane nelle loro mani, alla loro mercè. Il ragazzo sequestrato ha riferito a padre Mussie che i carcerieri sono armati fino ai denti ed entrano in contatto con i sequestrati solo bastonandoli a sangue. Sembrano ben organizzati, a capo di una struttura che riesce a controllare e tenere prigionieri anche altri gruppi di migranti tra cui sudanesi, somali ed etiopi. Loro, i sequestrati, non sanno dove si trovano, in quale località e dalla loro prigione vedono solo una moschea e una scuola. Troppo poco forse per poter essere localizzati. La figura del trafficante, colui che organizza e gestisce il viaggio, si adatta ai nuovi scenari e all’occorrenza si trasforma acquisendo ulteriori connotazioni. Sequestrare migranti e rifugiati è un aspetto di questa evoluzione. Ed è certamente un business ancora più redditizio che sta prendendo piede in diversi paesi, laddove attraversare il confine è sempre più difficile e i bisogni delle persone sempre più impellenti. Una realtà agghiacciante tipica dei nostri tempi che non sembra interessare nessuno.

Hanno ammazzato altri tre profughi eritrei Nel Sinai l'incubo di un popolo in fuga

EMERGENZA UMANITARIA Sono sei i profughui eritrei uccisi dai trafficanti che da oltre un mese tengono in ostaggio 80 rifugiati in fuga verso Israele che avevano già pagato 2.000 dollari a testa per il viaggio. Gli aguzzini avevano rilanciato a 8.000 con il camion fermo nel deserto al confine con Israele. L'appello dell'Onu ROMA - Ne hanno ammazzati altri tre. Dunque adesso sono sei i profughui eritrei uccisi dai trafficanti che da oltre un mese tengono in ostaggio 80 rifugiati 1 in fuga verso Israele e che avevano già pagato 2.000 dollari a testa per il viaggio. Una cifra che poi i trasportatori aguzzini avevano rilanciato a 8.000 appena il camion, zeppo di persone in fuga, sfiancate dalla stanchezza, dalla fame e dalla sete, s'è fermato nel deserto del Sinai egiziano, quasi al confine con lo stato ebraico. Qui i mercanti di uomini hanno detto: "Fino a quando non pagate altri 8 mila dollari resterete qui, in mezzo al deserto". Presi a bastonate. Così, mentre le Istituzioni umanitarie dell'ONU e dell'Unione Europea chiedono al governo egiziano di mettere in atto le misure opportune per combattere la tratta dei migranti in fuga da guerre e persecuzioni, l'Agenzia Habeshia ha ricevuto la drammatica notizia dell'uccisione di altri tre ostaggi che, a quanto pare, avevano tentato di fuggire in un gruppo di dodici persone, ma subito dopo catturati,torturati e pestati a bastonate. L'appello di EveryOne - "Gli accordi con il dittatore Gheddafi, la trasformazione del'Europa in una fortezza, le continue violazioni della Convenzione di Ginevra hanno prodotto questa nuova tragedia, in cui i migranti si sono trasformati nei nuovi Ebrei e un nuovo genocidio viene celebrato nell'orrore,nel sangue e nel silenzio," affermano Roberto Malini, Matteo Pegoraro e Dario Picciau, co-presidenti del Gruppo EveryOne, in un appello urgente rivolto alle Istituzioni internazionali. "L'Europa si sta abituando a parole come deportazione, reato di clandestinità, internamento", hanno detto ancora i dirigenti di Every-One - " le forze dell'ordine si trasformano in carnefici, i politici si affermano predicando xenofobia, i media addormentano le coscienze. Rinnoviamo l'appello: non consentiamo agli assassini di continuare i loro crimini e salviamo i 74 eritrei superstiti. Ma soprattutto, iniziamo a rispettare la Convenzione di Ginevra, senza la quale siamo tutti complici delle terribili violazioni dei diritti dei profughi". (30 novembre 2010)

Siamo nel deserto del Sinai e fra poco ci uccideranno

di Corrado Giustiniani Erano ottanta, tutti eritrei, e avevano pagato 2 mila dollari a testa per essere trasportati dal Corno d'Africa fino al Mediterraneo. Ma un mese fa sono stati sequestrati nel deserto del Sinai da altri trafficanti, che ora ne pretendono 8 mila in cambio della liberazione. Erano, ottanta. Perchè domenica ne sono stati uccisi tre, e mentre scrivo giunge notizia che altri tre, che tentavano la fuga, sono stati massacrati. Alcuni degli ostaggi sono in contatto telefonico con i familiari, e questi hanno avvisato l'Agenzia Habeshia, che ha dato l'allarme. C'è poco tempo per evitare una strage. Il Consiglio italiano dei rifugiati ha lanciato un appello alla Comunità internazionale, ricordando che in questo momento, assieme ai 74 ostaggi, vi sono in tutto 600 profughi nel deserto del Sinai, non soltano eritrei, ma anche somali e sudanesi e di altre nazionalità. Quello fra Israele ed Egitto è uno dei confini più pericolosi del mondo, e gli israeliani volevano costruirvi un muro. Non essendo più quasi praticabile il passaggio libico, i rifugiati in fuga da regimi sanguinari come quello eritero, tentano di arrivare al mare attraverso l'Egitto. E pure quelli rimasti in Libia, a quanto pare, cercano di spostarsi verso l'Egitto. Del resto, anche l'Italia sta aiutando la Libia a respingere i disperati: in luglio avevamo annunciato che la Finmeccanica di Guarguaglini aveva vinto una commessa da 40 milioni di euro per un sofisiticato sistema radar da piazzare al confine Sud del paese di Gheddafi, in modo da intercettare i migranti in arrivo. Nulla, infine, si sa più di un altro gruppo di eritrei. Gli oltre 200 che erano stati prima rinchiusi e maltrattati nel carcere libico di Al Braq, poi liberati a metà luglio con un permesso di soggiorno di pochi mesi (si era detto tre) adesso scaduto. Rischiano di essere rispediti in Eritrea e di subire così la vendetta del regime. Anche in questo caso le responsabilità italiane sono pesanti: è stato dimostrato che la maggior parte di questi richiedenti asilo era stata respinta in mare da unità italiane, senza poter avanzare la richiesta di protezione prevista dalla Convenzione di Ginevra. Il premier è in Libia, ma sembra improbabile che abbia tempo di occuparsi di questi temi di poco conto, ammesso che qualcuno glieli abbia segnalati. C'era una volta un mondo occidentale che usciva dalla seconda guerra mondiale con il desiderio di costruire un mondo nuovo e di garantire i diritti dei perseguitati. Da questa aspirazione nasceva, nel lontano 1951, quella Convenzione di Ginevra che più d'uno, oggi, vorrebbe mandare in soffitta o nascondere sotto uno sterminato tappeto di sabbia...

Eritrei di San Lupo, la denuncia di Legambiente Valle Telesina

A otto mesi dall’avvio la gestione del progetto d’integrazione dei rifugiati tradisce le aspettative degli eritrei, delle comunità e delle amministrazioni locali. Il Consiglio di Stato conferma la sentenza del TAR annullando l’aggiudicazione dell’appalto di gestione a Connecting People. Da oltre otto mesi il Comune di San Lupo ospita rifugiati eritrei, per un progetto innovativo e sperimentale di integrazione. Da allora la gestione del Centro di Accoglienza è stato tutt’altro che esemplare. Le lamentele degli eritrei per i servizi e le attività previste dal progetto (dall’insegnamento della lingua italiana all’assistenza psicologica, dalla mediazione culturale alla formazione professionale on the job) che sono stati erogati ben al di sotto delle necessità e che in molti casi non sono mai partiti, si sono trasformate presto in vere e proprie proteste, con lunghi scioperi della fame e una vera e propria occupazione del Centro, risolta solo con l’intervento della forza pubblica. Intanto dei 34 rifugiati arrivati ben 5 o 6 sono già andati via in cerca di quei servizi mai o non sufficientemente erogati, nonostante un finanziamento record di oltre due milioni di euro in due anni. “Alle preoccupazione degli eritrei fa eco quella della società civile e della cittadinanza che aveva accolto con entusiasmo questo progetto – spiega Grazia Fasano, presidente di Legambiente Valle Telesina –, esprimiamo una forte preoccupazione che questa potenziale grande occasione si trasformi in un incubo per questo prezioso Piccolo Comune”. A conferma di queste preoccupazioni e di quest’inizio tutt’altro che positivo del progetto, si aggiunge la sentenza del Consiglio di Stato, che ha convalidato la precedente sentenza del TAR del Lazio a seguito di un ricorso presentato da Legambiente (arrivata seconda nell’aggiudicazione del bando), che annulla l’affidamento a Connecting People per la gestione del progetto. “Confidiamo che, proprio dopo questa sentenza, si possa far ripartire il progetto nel migliore dei modi, riportandolo ad essere un’opportunità sia per i rifugiati eritrei che per la comunità locale di San Lupo – continua Grazia Fasano - premiando il coraggio e la sensibilità che l’Amministrazione e i cittadini hanno dimostrato accogliendo questo ambizioso Centro di Accoglienza Sperimentale”. L’integrazione dei rifugiati nei Piccoli Comuni rappresenta infatti un’importante novità nel piano dell’accoglienza e dell’integrazione, coniugandola con un’occasione di crescita collettiva, economica, demografica, culturale e socio lavorativa per le comunità locali. Piccoli Comuni come San Lupo infatti possono costituire una valida alternativa di accoglienza ed integrazione per rifugiati, in contesti più tutelati e con reali sbocchi di autonomia socio-lavorativa, rappresentando un insostituibile luogo dove apprendere ed affinare professionalità (dall’agricoltura alla pastorizia, dalla tutela dell’ambiente all’artigianato, dal turismo diffuso di qualità alla produzione di prodotti tipici, sino agli antichi saperi nella manutenzione del territorio). Un progetto che, se correttamente gestito, ha quindi tutti i presupposti per realizzare un’accoglienza e integrazione in ambienti più protetti e sereni che si fondi sulla conoscenza e la pratica da parte dei rifugiati dei propri diritti e dei propri doveri, verso una cultura della cittadinanza che si basi sulla legalità, sul rispetto delle regole e su uno spirito solidale. “Se questo centro di accoglienza di San Lupo è stato immaginato dal Ministero dell’Interno come un progetto sperimentale di portata innovativa anche per contribuire alla creazione di un sistema riproducibile sul piano nazionale, anche nella possibile nascita in altri piccoli comuni di nuovi progetti che si ispirino e traggano spunto dall’esperienza maturata in “Piccoli Comuni Grande Solidarietà” – conclude Grazia Fasano – è improrogabile una concreta inversione di tendenza nella sua gestione, che sia incentrata sulla quantità e sulla qualità dei servizi offerti ai rifugiati e sull’integrazione sociale e culturale con la solidale comunità dei sanlupesi”. Grazia Fasano - presidente di Legambiente Valle Telesina

SINAI, RIFUGIATI ERITREI/GRUPPO EVERYONE: TRE OSTAGGI UCCISI DAI TRAFFICANTI

(29/11/2010) - I parenti di alcuni degli 80 rifugiati eritrei ostaggio nel Sinai dei trafficanti egiziani ci riferiscono un terribile evento: tre uomini sono stati assassinati dai trafficanti, perché le loro famiglie non hanno pagato il riscatto, pari a circa 8.000 dollari ciascuno. Gli assassini hanno ucciso i tre ostaggi con colpi di pistola”. Ne danno notizia, i co-presidenti del Gruppo EveryOne Roberto Malini, Matteo Pegoraro e Dario Picciau, che hanno ricevuto conferma degli omicidi da don Mussie Zerai, sacerdote eritreo dell’Agenzia Habeshia, che ha parlato al telefono con alcuni familiari delle vittime. “Le Nazioni Unite, l'Unione europea, i Governi dei Paesi civili, tra cui il Governo italiano, le istituzioni e le autorità dell'Egitto hanno il dovere morale e civile di intervenire. Se gli assassini non vengono arrestati e gli altri 77 ostaggi liberati, l'Egitto avrà legalizzato il traffico di esseri umani, la schiavitù, la tortura, l'omicidio a sangue freddo: un massacro che può essere evitato con un’azione diplomatica internazionale”. EveryOne, ONG che da anni si batte per tutelare i diritti dei profughi e dei migranti, ha lanciato infatti un appello internazionale, indirizzato al Segretario Generale delle Nazioni Unite, all’Alto Commissario ONU per i Rifugiati, all’Alto Commissario ONU per i Diritti Umani, al Presidente del Parlamento Europeo, al Presidente della Commissione europea, al Comitato contro la Tortura del Consiglio d’Europa e al Presidente della Repubblica Araba d'Egitto. Nel testo, si invita la Comunità internazionale a intervenire per salvare i 77 rifugiati ancora in vita con un’azione tempestiva. “Chiediamo che anche il Governo italiano e le personalità politiche attente ai diritti umani e alla vita dei rifugiati compiano ogni sforzo possibile per evitare nuove atrocità” concludono gli attivisti di EveryOne.

Cir: profughi eritrei "rapiti" nel Sinai, si rischia una strage

Roma, 29 nov. (Apcom) - Il Consiglio italiano per i rifugiati (Cir) lancia l'allarme per le "drammatiche condizioni dei profughi eritrei sequestrati nel Sinai". "Tre di loro sono stati uccisi, perché non hanno pagato il riscatto richiesto dai trafficanti di uomini che da più di un mese li tengono segregati nel deserto - si legge in un comunicato - i rifugiati sono sequestrati in condizioni disumane, incatenati come schiavi, maltrattati e marchiati a fuoco, intrappolati al confine tra Egitto e Israele. Hanno pagato 2.000 dollari per la traversata, ma ora i trafficanti gliene chiedono 8.000 per liberarli". Il Cir precisa di aver appreso la notizia dall'Agenzia Habeshia, contattata da alcuni parenti che sentono con regolarità gli ostaggi. "Chiaramente non c'è più un minuto da perdere - ha detto Christopher Hein, direttore del Cir - la comunità internazionale e l'Egitto non possono stare a guardare mentre si sta compiendo una strage. Devono intervenire subito". Il Cir ha lanciato un appello al Consiglio nazionale egiziano per i diritti umani, presieduto da Boutros Boutros Ghali, e al Delegato dell'Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) in Egitto, Dayri Mohamed, affinché si interessino immediatamente alla vicenda. "Stiamo assistendo a una delle tante terribili conseguenze della chiusura delle frontiere e della politica dei respingimenti indiscriminati - ha aggiunto Hein - i rifugiati continuano a esistere, anche se arrivano molto meno nel nostro Paese. Stanno studiando nuove vie di fuga per raggiungere l'Europa, sempre più pericolose: dalla Libia verso l'Egitto e li a risalire i Paesi del Mediterraneo. Notizie allarmanti parlano di 600 profughi provenienti dal Corno d'Africa che si trovano nel deserto del Sinai. Uno dei confini più pericolosi al mondo. Questo nuovo scenario ci preoccupa davvero molto". Il Presidente del Cir ha quindi auspicato una risposta europea dall'audizione in programma oggi al parlamento di Strasburgo dedicata al caso.

“Se non pagate morirete qui” i nuovi ricatti dei trafficanti dopo gli accordi Italia-Libia

Autore: Erica Balduzzi Segregati nel deserto del Sinai, legati con le catene ai piedi, costantemente minacciati e ricattati: la loro libertà costa 8mila euro. E’ questa la condizione in cui si trovano attualmente moltissimi profughi, bloccati al confine tra Egitto ed Israele. I dati parlano di circa seicento persone, tra etiopi, eritrei, somali e sudanesi, e tra di essi anche molte donne: tutti in mano ai trafficanti di esseri umani. A lanciare l’appello è Mussie Zerai, sacerdote eritreo fondatore della ong Habeshia, che da tempo segue il dramma dei profughi in fuga dal Corno d’Africa verso l’Europa, sempre più spesso fermati in condizioni disumane dalla polizia libica o dai trafficanti. E se i recenti e contestati accordi di amicizia tra Italia e Libia hanno apparentemente permesso di ‘chiudere il rubinetto’ dell’immigrazione – regolare o meno – dalle coste libiche verso quelle italiane, in verità il dramma umano dei profughi in fuga da guerre e povertà non ha minimamente accennato a diminuire dopo tali provvedimenti. Anzi, continua a crescere e ad assumere forme sempre più disperate, come la ricerca di nuove rotte e di nuovi e spregiudicati ‘mediatori’ per il viaggio verso un’agognata libertà. «La chiusura delle frontiere dell’Europa con accordi bilaterali – spiega Zerai – non offre alternative ai richiedenti asilo del Corno d’Africa se non quella di affidarsi a sensali di carne umana, trafficanti di persone innocenti e disperate». Poiché molti respingimenti ora avvengono anche nel deserto libico verso il Sudan e il Ciad, i profughi sono costretti a cercare altre vie: verso Israele (che per contrastare il fenomeno sta costruendo il muro al confine con l’Egitto), ma anche verso lo Yemen (in questo caso, si parla soprattutto di somali). Il grido d’aiuto dei profughi, bloccati nella periferia di una città del Sinai, è arrivato solo nella tarda serata del 23 novembre. Con la scusa di chiamare i familiari per ottenere i soldi del riscatto chiesto dai carcerieri, alcuni di loro sono riusciti a mettersi in contatto con l’associazione Habeshia e a raccontare la situazione in cui si trovano da più di un mese: incatenati come un tempo si faceva nel commercio degli schiavi, senza la possibilità di lavarsi, fortemente debilitati dalle violazioni ai fondamentali diritti della persona a cui sono sottoposti e dalle cattive condizioni igienico-sanitarie. Secondo le ultime informazioni infatti, ottenute da Zerai nella serata del 26 novembre, hanno a disposizione pochissimo cibo e solo acqua salata da bere, che quindi provoca ulteriori problemi di salute. Le donne sono le più debilitate dalle condizioni di fame, sete e terrore in cui sono tenuti da più di un mese a questa parte. Partiti da Tripoli, in Libia, avevano già pagato ai trafficanti la somma pattuita di 2mila dollari per essere trasportati in Israele. Una volta raggiunto il confine, nel deserto del Sinai, i trafficanti hanno però tradito gli accordi e hanno alzato il prezzo per i loro ‘servigi’: per lasciarli proseguire, hanno chiesto altri 8mila dollari. Chi non paga, è tenuto costantemente sotto minaccia di morte: “se non pagate, morirete qui”. «Questa modalità di ricatto – racconta Zerai – è diventata redditizia per i trafficanti, che sfruttano la disperazione dei profughi. La politica di respingimenti e di chiusura – prosegue ancora – sta favorendo l’arricchimento di trafficanti e criminali, che raggirano i disperati in fuga da guerre, persecuzioni e fame». Ad accogliere l’appello lanciato da Habeshia sono stati finora diversi gruppi e associazioni in prima linea per la promozione dei diritti umani, come il Gruppo Everyone, il gruppo Watching the Sky, il Circolo Generazione Italia di Milano- sezione Diritti Umani e le associazioni Ruota Rossa e Anne’s Door. Habeshia si auspica un intervento in tempi brevi sulla questione da parte dell’Alto Commissario Onu per i Rifugiati, del Parlamento Europeo, della Commissione Europea e soprattutto del Governo Egiziano, per liberare queste persone senza mettere ulteriormente in pericolo le loro vite e la loro dignità. «Ma – aggiunge Zerai – c’è il rischio che una volta liberati i profughi vengano deportati. Il Governo Egiziano non è nuovo a episodi di questo tipo: bisogna chiedere la garanzia che queste persone non vengano riportate nel paese d’origine dopo la liberazione, e che venga loro riconosciuto il diritto d’asilo. Il rischio di deportazione – conclude – è da scongiurare a tutti i costi».

domenica 28 novembre 2010

Uccisi tre dei 80 Profughi Eritrei a Sinai in Egitto

Appello !! Liberate i Profughi Eritrei Sequestrati a Sinai in Egitto dai Trafficanti! Abbiamo ricevuto una richiesta di aiuto da 80 profughi eritrei sequestrati al confine tra Egitto ed Israele, dai trafficanti che pretendono il pagamento di $. 8.000 dollari per rilasciarli. Questi profughi raccontano che sono partiti da Tripoli Libia, per andare in Israele, hanno già pagato il prezzo pattuito di $. 2.000, invece i trafficanti hanno tradito gli accordi presi voglio di più. Il racconto dei profughi si fa drammatico sulla loro condizione, sono già un mese che sono tenuti legati con le catene ai piedi, come si faceva una volta con il commercio degli schiavi, continuamente minacciati, da 20 giorni che non toccano acqua per lavarsi, sono segregati nelle case nel deserto di Sinai, sotto la minaccia di morte se non pagano questi $ 8.000 dollari. Mi riferiscono che ci sono molti altri profughi eritrei, etiopi, somali, sudanesi nella zona Sinai in simili condizioni, si parla di circa 600 persone in totale. Questa modalità di ricatto diventata nel tempo redditizia per questi trafficanti che sfruttano la disperazione di questi profughi. Questa situazione anche frutto della chiusura delle frontiere dell'Europa con accordi bilaterali, che non hanno offerto alternative ai richiedenti asilo politico provenienti dal Corno D'Africa, ora costretti sempre di più ad affidarsi a questi sensali di carne umana, trafficanti di esseri umani. La politica di respingimenti e di chiusura, sta favorendo l'arricchimento dei trafficanti e criminali, che raggirano i disperati che fuggono da situazioni di guerre, persecuzioni, fame. Chiediamo l'intervento della Comunità Europea, per spingere il governo Egiziano a librare queste persone senza mettere in pericolo le vite umane, in questo gruppo di profughi ci sono anche donne in condizioni fortemente debilitate dalla mancanza di cibo, ignee personale, sono in situazione di totale degrado e degradante della dignità umana. Appeal! Free the Eritrean refugees seized from smugglers by the Sinai to Egypt! We received a request for help from 80 Eritrean refugees seized at the border between Egypt and Israel, by traffickers who pretend to pay $. $ 8,000 for release. These refugees say that departed from Tripoli Libya, to go to Israel, have already paid the agreed price of $. 2,000, but smugglers have betrayed the agreements I want more. The dramatic story of the refugees is made on their condition, are already one month that are tethered with chains on their feet, as was once the slave trade, constantly threatened by 20 days that do not touch water for washing, are segregated in the houses in the desert of Sinai, under threat of death if they do not pay $ 8,000 dollars. I'm told that there are many other displaced Eritreans, Ethiopians, Somalis, Sudanese in the Sinai in similar conditions, we are talking about 600 people in total. This mode of blackmail over time become profitable for these traffickers who exploit the desperation of these refugees. This situation also the result of the closure of the borders of Europe through bilateral agreements, which did not offer alternatives to asylum seekers from the Horn of Africa, now increasingly forced to rely on these brokers in human flesh, human traffickers. The policy and rejections of closure, is favoring the enrichment of traffickers and criminals who deceive the desperate people fleeing war, persecution, famine. We demand the intervention of the European Community, the Egyptian government to push these people to soar without endangering human lives, in this group of refugees are also women in conditions greatly weakened by lack of food, igneous staff, are in a situation of total degradation and degrading human dignity. Allarme Rosso! qualcuno intervenga prima di uan strage dei innocenti. I profughi vengono continuamente mal trattati e marchiati con il fuoco come delle bestie, per costringerli a chiedere soldi ai parenti che vivono in Occidente. Chiedono un aiuto subito prima che ci massacrano tutti. Chiediamo ai governi Europei ed UNHCR intevengano per salvare la vita di queste persone, non ce tempo da perdere, sono stremati, i loro carcerieri sono sempre più violenti. Bisogna fare pressione sul governo Egiziano che intervenga a liberare questa gente dalle mani di questi trafficanti. Ci appelliamo al governo Italiano Salvate la vita a questi profughi Eritrei, Etiopi, Somali e Sudanesi !!! Non tacete. Noi stiamo gridando per dare voce a questi nostri fratelli costretti a stare incatene da criminali, chi ha a cuore la dignità umana, i diritti in violabili della persona umana, sollecitiamo chi può salvare queste persone il GOVERNO EGIZIANO. Red Alert! uan someone intervenes before the massacre of the innocents. The refugees are constantly being badly treated and marked with the fire as well as cattle, forcing them to ask for money to relatives living in the West. Asking for help just before slaughter us all. We call on European governments and UNHCR intevengano to save the lives of these people, do not time to lose, are exhausted, their captors are becoming increasingly violent. We must put pressure on the Egyptian government to intervene to free these people from the hands of these traffickers. We call on the Italian government saved the lives of these displaced Eritreans, Ethiopians, Sudanese and Somali! Do not be silent. We are crying out to give voice to these brothers have to be enslaved by criminals, who cares about human dignity, the rights of the human person in breakable, we urge those who can save these people, the Egyptian government. Ci riferiscono alcuni parenti delle vittime, oggi sono stati ucisi 3 profughi eritrei dei 80 perche non intenzionati di pagare il riscato di 8.000 dollari richiesto dai trfficanti. Qundi non ce tempo da pedere bisogna chiedere con forza l'intervento del governo Egiziano per liberare questa gente. gli stanno già uccidendo uno ad uno. I tre persone sono state ammazzate con un colpo di pistola, riferiscono i parenti che hanno contattato i profughi incatenati nel deserto di SINAI. Ci rivolgiamo aI governo Italiano perché chieda al goveno Egiziano di intervenire per liberare questi profughi delle mani di questi criminali. don Mussie We refer to some relatives of the victims today were ucisi 3 of 80 Eritrean refugees unwilling to pay because the risk assessment required by trfficanti. Then we go there is not time to pedere need to insist on the intervention of the Egyptian government to free these people. the are already killing one by one. The three people were killed with a gun, report relatives who contacted the refugees chained in the wilderness of Sinai. We appeal to the Italian government to ask the Egyptian Goven to intervene to free these refugees from the hands of these criminals. Don Mussie Zerai

sabato 27 novembre 2010

“Se non pagate, morirete qui”: i nuovi ricatti dei trafficanti dopo gli accordi Italia-Libia

Segregati nel deserto del Sinai, legati con le catene ai piedi, costantemente minacciati e ricattati: la loro libertà costa 8mila euro. E’ questa la condizione in cui si trovano attualmente moltissimi profughi, bloccati al confine tra Egitto ed Israele. I dati parlano di circa seicento persone, tra etiopi, eritrei, somali e sudanesi, e tra di essi anche molte donne: tutti in mano ai trafficanti di esseri umani. A lanciare l’appello è Mussie Zerai, sacerdote eritreo fondatore della ong Habeshia, che da tempo segue il dramma dei profughi in fuga dal Corno d’Africa verso l’Europa, sempre più spesso fermati in condizioni disumane dalla polizia libica o dai trafficanti. E se i recenti e contestati accordi di amicizia tra Italia e Libia hanno apparentemente permesso di ‘chiudere il rubinetto’ dell’immigrazione – regolare o meno – dalle coste libiche verso quelle italiane, in verità il dramma umano dei profughi in fuga da guerre e povertà non ha minimamente accennato a diminuire dopo tali provvedimenti. Anzi, continua a crescere e ad assumere forme sempre più disperate, come la ricerca di nuove rotte e di nuovi e spregiudicati ‘mediatori’ per il viaggio verso un’agognata libertà. «La chiusura delle frontiere dell’Europa con accordi bilaterali – spiega Zerai – non offre alternative ai richiedenti asilo del Corno d’Africa se non quella di affidarsi a sensali di carne umana, trafficanti di persone innocenti e disperate». Poiché molti respingimenti ora avvengono anche nel deserto libico verso il Sudan e il Ciad, i profughi sono costretti a cercare altre vie: verso Israele (che per contrastare il fenomeno sta costruendo il muro al confine con l’Egitto), ma anche verso lo Yemen (in questo caso, si parla soprattutto di somali). Il grido d’aiuto dei profughi, bloccati nella periferia di una città del Sinai, è arrivato solo nella tarda serata del 23 novembre. Con la scusa di chiamare i familiari per ottenere i soldi del riscatto chiesto dai carcerieri, alcuni di loro sono riusciti a mettersi in contatto con l’associazione Habeshia e a raccontare la situazione in cui si trovano da più di un mese: incatenati come un tempo si faceva nel commercio degli schiavi, senza la possibilità di lavarsi, fortemente debilitati dalle violazioni ai fondamentali diritti della persona a cui sono sottoposti e dalle cattive condizioni igienico-sanitarie. Secondo le ultime informazioni infatti, ottenute da Zerai nella serata del 26 novembre, hanno a disposizione pochissimo cibo e solo acqua salata da bere, che quindi provoca ulteriori problemi di salute. Le donne sono le più debilitate dalle condizioni di fame, sete e terrore in cui sono tenuti da più di un mese a questa parte. Partiti da Tripoli, in Libia, avevano già pagato ai trafficanti la somma pattuita di 2mila dollari per essere trasportati in Israele. Una volta raggiunto il confine, nel deserto del Sinai, i trafficanti hanno però tradito gli accordi e hanno alzato il prezzo per i loro ‘servigi’: per lasciarli proseguire, hanno chiesto altri 8mila dollari. Chi non paga, è tenuto costantemente sotto minaccia di morte: “se non pagate, morirete qui”. «Questa modalità di ricatto – racconta Zerai – è diventata redditizia per i trafficanti, che sfruttano la disperazione dei profughi. La politica di respingimenti e di chiusura – prosegue ancora – sta favorendo l’arricchimento di trafficanti e criminali, che raggirano i disperati in fuga da guerre, persecuzioni e fame». Ad accogliere l’appello lanciato da Habeshia sono stati finora diversi gruppi e associazioni in prima linea per la promozione dei diritti umani, come il Gruppo Everyone, il gruppo Watching the Sky, il Circolo Generazione Italia di Milano- sezione Diritti Umani e le associazioni Ruota Rossa e Anne’s Door. Habeshia si auspica un intervento in tempi brevi sulla questione da parte dell’Alto Commissario Onu per i Rifugiati, del Parlamento Europeo, della Commissione Europea e soprattutto del Governo Egiziano, per liberare queste persone senza mettere ulteriormente in pericolo le loro vite e la loro dignità. «Ma – aggiunge Zerai – c’è il rischio che una volta liberati i profughi vengano deportati. Il Governo Egiziano non è nuovo a episodi di questo tipo: bisogna chiedere la garanzia che queste persone non vengano riportate nel paese d’origine dopo la liberazione, e che venga loro riconosciuto il diritto d’asilo. Il rischio di deportazione – conclude – è da scongiurare a tutti i costi».

venerdì 26 novembre 2010

Terremoto vicino costa Yemen

Un terremoto di magnitudo 4.6 e profondità 10 km si verificato vicino la costa dello Yemen. Lo si apprende da un bollettino pubblicato sul sito dell’Us Geological Survey in cui si segnala che l’evento sismico è stato registrato alle ore 10:11 am del 25-11-10 (ora epicentro) mentre in Italia erano le 08:11 am. L’epicentro è stato localizzato a 110 k a est-nord est di Djibouti e 170 km a sud est di Assab (Eritrea).

giovedì 25 novembre 2010

Italia, Istat: 1 su 5 è over 65, straniero 7% della popolazione

ROMA (Reuters) - E' un'Italia sempre più vecchia quella fotografata dall'Istat, con un italiano su cinque sopra i 65 anni e quasi il 6% della popolazione che supera gli ottanta. A fine 2009 l'indice di vecchiaia, cioè il rapporto tra la popolazione con più di 65 anni e quella con meno di 15, ha registrato un ulteriore incremento raggiungendo il 143,8%, come emerge dall'Annuario statistico presentato oggi. Nella graduatoria internazionale, che si basa su dati del 2008, l'Italia è al secondo posto dopo la Germania (150,2%), seguita da Grecia (130,3%) e Bulgaria (129,6%). Salito il numero dei "grandi vecchi", coloro con più di 80 anni, che ormai rappresentano il 5,8% della popolazione italiana. La fecondità, intanto, ha subìto una battuta d'arresto interrompendo il ciclo crescente osservato dopo il 1995. Nel 2009 si sono registrati infatti 1,41 figli per donna, contro l'1,42 dell'anno precedente. Assieme a Irlanda e Lussemburgo, inoltre, l'Italia è il Paese in cui le donne diventano madri più tardi: l'età media al parto è 31,1 anni. GROSSO STRANIERI DA EUROPA E NORD AFRICA Gli stranieri nel nostro Paese sono oltre 4,2 milioni, il 7% della popolazione totale. Per la maggior parte gli stranieri provengono dall'Unione Europea (29,3%), dall'Europa centro-orientale (24%) e dal Nord Africa (15,3%). A fine 2009 l'Italia contava oltre 60,3 milioni di residenti, circa 291mila in più rispetto all'anno prima. "Questo incremento si deve al saldo attivo del movimento migratorio che, pur in calo, neutralizza l'effetto negativo del saldo naturale", si legge in una nota.

Egitto: profughi in catene nel deserto del Sinai

A cura di AMISnet • 25 Novembre 2010 “Sono tenuti legati con le catene ai piedi, non hanno acqua per lavarsi da venti giorni, sono segregati in case nel deserto del Sinai, sotto minaccia di morte se non pagano ottomila dollari ai trafficanti di uomini”. La denuncia arriva dall’associazione Habeshia. Secondo quanto comunicato, ottanta profughi di orgine eritrea sono stati sequestrati al confine tra Egitto e Israele. Gli ottanta sarebbero partiti dalla Libia verso Israele, pagando ai trafficanti duemila dollari, ma ora i passeur pretendono di più. “Mi riferiscono che ci sono molti altri profughi eritrei, etiopi, somali, sudanesi nella zona Sinai in simili condizioni, si parla di circa seicento persone in totale” dichiara don Mussie Zerai, presidente di Habeshia. A seguito del lanciato allarme, il senatore Pietro Marcenaro, presidente della Commissione straordinaria per i Diritti Umani, ha presentato il 24 novembre un’interrogazione urgente al ministro degli Esteri in cui si chiede di verificare la situazione dei profughi trattenuti e, nel caso le informazioni fossero confermate, di muovere tutti i passi necessari nei confronti del governo egiziano affinché queste persone vengano liberate e siano garantite loro incolumità e sicurezza. “Questa situazione è anche frutto della chiusura delle frontiere dell’Europa, attraverso accordi bilaterali che non offrono alternative ai richiedenti asilo provenienti dal Corno D’Africa. La politica di respingimenti e di chiusura, sta favorendo l’arricchimento di trafficanti e criminali” denuncia Zerai. Da pochi giorni sono iniziati i lavori per la costruzione di un muro lungo il confine fra Egitto ed Israele finalizzato a bloccare i migranti che provano ad entrare nel territorio israeliano. Nella parte settentrionale la nuova barriera si collegherà a quella costruita dall’Egitto lungo il confine fra il Sinai e la Striscia di Gaza. Per il completamento dei lavori il governo di Benyamin Netanyahu ha stanziato 1,35 miliardi di shekel, circa 270 milioni di euro. Il nuovo muro sorgerà su 110 dei 240 chilometri di confine con l’Egitto. Nella parte rimanente Israele installerà sensori e strumenti ottici e rafforzerà i pattugliamenti di polizia ed esercito. Il racconto di M.Zerai, associazione Habeshia, che ha contattato telefonicamente i profughi reclusi

Profughi eritrei sequestrati in Egitto "8 mila dollari per proseguire il viaggio"

Sono tenuti in catene nel deserto. La denuncia è di "Habeshia Agenzia per lo sviluppo e la cooperazione". Erano partiti da Tripoli, in Libia, per andare in Israele pagando i 2 mila dollari pattuiti. In Egitto però i trafficanti che li accompagnano pretendono 8 mila dollari in più. L'appello dell'UNHCR Profughi eritrei sequestrati in Egitto "8 mila dollari per proseguire il viaggio" SINAI (Egitto, confine con Israele) - Da oltre un mese 80 profughi eritrei sono sequestrati al confine tra Egitto e Israele dai trafficanti di esseri umani che pretendono 8 mila dollari per la loro liberazione. E' la denuncia dell'associazione "Habeshia-Agenzia 1 per lo sviluppo e la cooperazione", rilanciata e diffusa dall'organizzazione "EveryOne 2". "Il gruppo di immigrati, tra i quali molte donne - riferisce l'agenzia - è segregato e tenuto in condizioni inumane con catene ai piedi e senza acqua in alcune case nel deserto del Sinai". Il racconto dei profughi. Raccontato di essere partiti da Tripoli, in Libia, per andare in Israele, pagando i due mila dollari inizialmente pattuiti. Ma al loro arrivo i trafficanti hanno tradito gli accordi esigendone 8 mila. Dal momento che nessuno di loro dispone più di denaro, i sequestratori hanno intimato loro di prendere contatti con i familiari per farsi inviare i soldi. Uno dei profughi ha così potuto chiamare l'agenzia Habeshia per raccontare la loro odissea. "Questa modalità di ricatto è diventata nel tempo redditizia per i trafficanti che sfruttano la disperazione dei profughi", spiega EveryOne in una nota, "questa situazione è anche frutto della chiusura delle frontiere dell'Europa con accordi bilaterali che non hanno offerto alternative ai richiedenti asilo politico provenienti dal Corno D'Africa, ora costretti sempre più ad affidarsi ai trafficanti". L'Alto Commissariato ONU per i rifugiati. Laura Boldrini, portavoce dell'UNHCR, chiamata in causa da questa nuova emergenza, dice: "Non abbiamo informazioni dirette su questo episodio, perché non c'è una nostra presenza al confine fra Egitto e Israele. Abbiamo però chiesto più volte ai due governi di metterci in condizione di verificare se esistono richiedenti asilo politico fra le persone che normalmente vengono fermate in quella zona. Una frontiera assai critica - ha aggiunto la Boldrini - perché oltre ai soprusi perpetrati dai trafficanti sui rifugiati, ci sono stati riferiti anche atteggiamenti violenti e repressivi da parte delle guardie di frontiera di entrambi i paesi. Oltre tutto, da indiscrezioni raccolte sulla stampa araba, sembra che lo stato di Israele stia costruendo il muro al confine che era stato annunciato in passato". (25 novembre 2010)

mercoledì 24 novembre 2010

ITALIA - Immigrati. Unar: ritirare delibera casa Comune Montecchio Maggiore

Il sindaco di Montecchio Maggiore deve ritirare la delibera sui parametri abitativi, che colpisce in particolare gli immigrati, perche' illegittima. Lo sostiene la Cgil di Vicenza, che accoglie 'con grande soddisfazione' la notizia dell'invio di una lettera da parte dell'Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali (Unar), che fa capo al Ministero delle pari opportunita', in cui si chiede al primo cittadino Milena Cecchetto 'l'eventuale sospensione e il successivo ritiro del provvedimento', approvato nel dicembre 2009. Di interventi analoghi da parte dell'Unar ha parlato oggi Repubblica, citando casi avvenuti nel Bresciano. L'Unar sottolinea che la delibera - con la quale si stabilisce il numero di occupanti, anche temporanei, di un alloggio, in relazione alle sue dimensioni (2 persone per 60 mq, 3 persone per 70 mq, 4 per 85 mq, 5 per 95 mq e cosi' via) - non e' coerente 'con i principi generali dell'ordinamento, oltre che della Costituzione italiana e del diritto europeo'. Il documento cita la direttiva del Ministero dell'interno in cui si chiarisce che gli alloggi considerati idonei per il ricongiungimento familiare degli immigrati devono corrispondere a 'parametri generalmente stabiliti per tutta la cittadinanza, su tutto il territorio nazionale'. Per la Cgil, l'Unar in pratica sposa in pieno le tesi 'ribadite piu' volte pubblicamente dal sindacato ed espresse nel ricorso depositato presso il Tribunale di Vicenza che verra' dibattuto il udienza il 21 dicembre prossimo'. E al responso dell'aula giudiziaria si rifa' il sindaco di Montecchio nella sua replica: 'davanti al Tribunale stiamo illustrando in maniera chiara e precisa la nostra posizione - precisa - e da quest'organo attendiamo di sapere se nel nostro agire sono da ravvisare illegittimita' e violazioni della normativa antidiscriminazioni'. Senza risparmiare una battuta polemica. 'Se l'Unar avesse approfondito la materia - replica Cecchetto - avrebbe 'scoperto' che tanti altri comuni, vicentini e veneti, applicano gli stessi parametri abitativi. A quel punto, forse, sarebbe stato piu' opportuno per l'Unar contattare non il Comune di Montecchio Maggiore, che non ha fatto altro che applicare una normativa - conclude - ma direttamente il Governo, chiedendogli di intervenire per portare chiarezza in questa materia'.

Passpartù 08: sabbie libiche

A cura di AMISnet • 23 Novembre 2010 Che fine hanno fatto i trecento eritrei deportati in Libia di cui quest’estate si è parlato sulle cronache nazionali? E che fine fanno tutte le persone respinte in mare dall’Italia? In questa puntata torniamo a parlare delle condizioni di vita di rifugiati e profughi in Libia, cercheremo anche di capire quanto sia legale l’atteggiamento dell’Italia e di esplorare gli scenari futuri che si prospettano, anche a seguito della mozione del trattato Italia-Libia avanzata dai radicali e approvata in questi giorni dal parlamento in cui si chiede che il Governo si assuma l’impegno ad ottenere dalla Libia solide garanzie sul rispetto dei diritti previsti dalle Convenzioni Onu sui respingimenti degli immigrati clandestini dalle coste italiane. Da maggio 2009, a seguito di un accordo tra l’Italia e la Libia, il nostro paese ha iniziato a respingere in Africa le barche dei migranti che dalla Libia cercavano di raggiungere le nostre coste. Il leader libico Gheddafi riceve sei motovedette della Guardia di Finanza italiana, dotate di un equipaggio misto, italiano e libico, che hanno il compito di bloccare i migranti in mare, respingerli verso le coste libiche. Messa in atto il 15 maggio del 2009, la politica dei respingimenti ha iniziato a dare i suoi frutti, impedendo l’arrivo di migliaia di richiedenti asilo in Italia, come ha più volte entusiasticamente dichiarato il ministro Maroni. Ma non è solo l’Italia a firmare accordi con la Libia: l’Unione Europea sta negoziando un patto di cooperazione con il paese, che prevede un sostegno al controllo dei confini con Chad, Sudan e Niger. Anche qui si parla di soldi, la Libia ha chiesto cinque miliardi di euro per bloccare l’immigrazione. I diritti dell’uomo sembrano per ora ben lontani dalle negoziazioni, tanto è che l’Europa non insiste neanche un pò per fare firmare alla Libia la Convenzione Onu sui rifugiati. I respingimenti collettivi, vietati dalle convenzioni internazionali, sono attualmente sotto esame da parte della Corte di Siracusa e della Corte europea dei diritti dell’uomo. Ma c’è anche un’altra questione che fa allarmare, e riguarda le condizioni in cui vivono le persone respinte. La mancanza di diritti è più volte denunciata anche a livello europeo dalle organizzazioni umanitarie, come Amnesty International. “Amnesty International sta facendo pressione sull’unione europea affinchè monitori che qualsiasi tipo di accordo firmato tra i paesi dell’Ue e la libia tuteli i diritti dell’uomo. I respingimenti devono essere fermati, perchè la situazione in Libia non consente di rinviare delle persone indietro. In particolare stiamo tenendo sott’occhio le conseguenze del patto firmato tra Italia e Libia e il loro impatto sui diritti dell’uomo. L’Italia e l’Europa non possono esimersi dal dare asilo, nonostante vogliano controllare le migrazioni”. Della sorte degli eritrei rimpatriati nei respingimenti si è parlato nei media mainstream solo quest’estate, nonostante le denunce dei giornalisti Gabriele del Grande e Roman Herzog che già in precedenza avevano raccontato di un loro viaggio tra le carceri libiche. A luglio la storia di trecento di loro è balzata alle cronache, a seguito di una rivolta attuata da eritrei deportati nel campo di detenzione di Misratah. Una rivolta violenta, a cui aveva avuto seguito il trasferimento dei trecento in un altro campo libico. Oggi a queste persone, che avevano ricevuto un permesso di soggiorno del periodo di tre mesi, sta per scadere il permesso di e la loro situazione potrebbe di nuovo aggravarsi. In questi giorni l’associazione Habeshia, insieme ad Amnesty International, ha presentato alla Camera una relazione sulla situazione in Libia, chiedendo che l’Italia faccia il primo passo, così come aveva promesso quest’estate. “Stiamo chiedendo all’Italia e all’Europa che ci sia un canale protetto di ingresso legale per i richiedenti asilo, l’unica possibilità di vita per queste persone” spiega Mussie Zerai, presidente di Habeshia. Senza diritti e sfruttati, i profughi si trovano in trappola, respinti in mare quando tentano di raggiungere le nostre coste, aggrediti con armi da fuoco se tentano la rotta verso Israele, attraverso la pericolosissima frontiera del Sinai. C’è chi ha fatto marcia indietro verso il Sudan, chi devia versa Israele, chi tenta di passare dalla Libia in Egitto, chi ritorna nei paesi d’origine. Il giornalista Roman Herzog è andato proprio sulle tracce di chi scappa dalla Libia e ad aprile scorso è stato in Etiopia, una delle destinazioni dei migranti appunto. Lì ha visitato numerosi campi profughi del paese,. “Sempre in meno partono” racconta Herzog “perché ormai tutti sanno quello che accade in Libia o ai confini tra Israele e Egitto, e molti cercano rifugio proprio in Etiopia, che gode di una particolare politica verso i rifugiati”. Le testimonianze raccolte da Herzog fanno parte di un audio-documentario, dal titolo “Non te la prendere se non ce l’hai fatta”, un lavoro che uscirà nella primavera del 2011, e che porterà in Italia le voci e le informazioni che non ci sono mai arrivate dall’altro confine del Sahara. Ospiti della puntata: Fulvio Vassallo Paleologo, Diana Eltahawy, Mussie Zerai, Roman Herzog In redazione: Andrea Cocco e Khaldoun Passpartù è un programma a cura di Elise Melot e Marzia Coronati icon for podpress Passpartù 08: Sabbie libiche [30:00m]: Play Now | Download

Prato, cibo e abbigliamento confiscati donati ad una onlus per gli aiuti all'Eritrea

Partiranno domani da Genova 1.500 capi e 13 tonnellate di alimentari confiscati dalla polizia stradale. Grazie a un'accordo con la "Chebì" andranno alle suore Figlie della Carità della missione africana Partiranno domani dal porto di Genova circa 1.500 tra capi d'abbigliamento e scarpe provenienti dai magazzini di merce confiscata dalla polizia stradale pratese a trasportatori abusivi, insieme a oltre 13 tonnellate di generi alimentari. Mittente la onlus pratese Chebì, destinazione le missioni delle Suore Figlie della Carità in Eritrea. Tra i beni confiscati e ceduti alla onlus ci sono anche 5.200 borse, che saranno da domenica nei mercatini natalizi dell'associazione a Prato, Pisa, Firenze e Montevarchi destinati a finanziare l'acquisto di medicinali per gli 11 ambulatori fondati dalla diocesi di Keren, sempre in Eritrea. Offerta minima a borsa 5 euro, che se moltiplicati per 5.200 fornirebbero medicinali per circa un anno agli unici presidi medici della regione, abitata da circa 450.000 persone. L'uso umanitario dei beni confiscati a trasportatori abusivi è un'idea nata dalla sensibilità del comandante della polizia stradale pratese Fiorella Fornasier, affinchè non andassero deteriorati i prodotti ammassati nei depositi in attesa della distruzione. Ottenuto il permesso della prefettura, l'iter per la consegna della merce all'associazione di volontari è stato rapido. La collaborazione tra polizia stradale e Chebì onlus è destinata a continuare.

SENATO: PD, INTERROGAZIONE A FRATTINI PER CHIEDERE LA LIBERAZIONE DI 80 PROFUGHI ERITREI

(AGENPARL) - Roma, 24 nov - "Il senatore Pietro Marcenaro, presidente della Commissione straordinaria per i Diritti Umani, ha presentato oggi un'interrogazione urgente al ministro degli Esteri in cui si chiede di verificare la situazione di 80 profughi eritrei trattenuti in Egitto e, nel caso le informazioni fossero confermate, di muovere tutti i passi necessari nei confronti del governo egiziano affinché queste persone vengano liberate e siano garantite loro incolumità e sicurezza. Questa notte infatti l'agenzia per la cooperazione allo sviluppo Habeshia ha lanciato un appello dal quale risulterebbe una richiesta disperata di aiuto da parte di 80 profughi eritrei sequestrati al confine tra Egitto e Israele dai trafficanti, che pretendono il pagamento di 8.000 dollari per la loro liberazione. Questi profughi raccontano di essere partiti da Tripoli, in Libia, per andare in Israele e di avere già pagato il prezzo pattuito di 2.000 dollari, ma che i trafficanti hanno tradito gli accordi presi ed esigono di più. Il racconto dei profughi è drammatico, riguardo alla loro condizione: riferiscono di essere tenuti legati con le catene ai piedi da un mese, come si faceva una volta nel commercio degli schiavi, e di essere continuamente minacciati e maltrattati. Spiegano di non avere a disposizione da 20 giorni acqua per lavarsi, di essere segregati nelle case nel deserto del Sinai, sotto minaccia di morte se non pagano questi 8.000 dollari e riferiscono di molti altri profughi, in tutto circa 600 persone provenienti da Eritrea, Etiopi, Somalia e Sudan, in simili condizioni". Lo comunica il Partito Democratico al Senato in una nota stampa.

80 Eritrean refugees seized at the border between Egypt and Israel

An urgent appeal to: UNHCR, OHCHR, European Parliament and Commission, Council of the European Union, Egyptian Government Rome (Italy), Novembre 24, 2010. We received a request for help from 80 Eritrean refugees seized at the border between Egypt and Israel, by traffickers who pretend to pay $. 8,000 for release. These refugees say that departed from Tripoli Libya, to go to Israel, have already paid the agreed price of $. 2,000, but smugglers have betrayed the agreements I want more. The dramatic story of the refugees is made on their condition, are already one month that are tethered with chains on their feet, as was once the slave trade, constantly threatened by 20 days that do not touch water for washing, are segregated in the houses in the desert of Sinai, under threat of death if they do not pay $ 8,000 dollars. I'm told that there are many other displaced Eritreans, Ethiopians, Somalis, Sudanese in the Sinai in similar conditions, we are talking about 600 people in total. This mode of blackmail over time become profitable for these traffickers who exploit the desperation of these refugees. This situation also the result of the closure of the borders of Europe through bilateral agreements, which did not offer alternatives to asylum seekers from the Horn of Africa, now increasingly forced to rely on these brokers in human flesh, human traffickers. The policy and rejections of closure, is favoring the enrichment of traffickers and criminals who deceive the desperate people fleeing war, persecution, famine. We demand the intervention of the European Community, the Egyptian government to push these people to soar without endangering human lives, in this group of refugees are also women in conditions greatly weakened by lack of food, igneous staff, are in a situation of total degradation and degrading human dignity. Don Mussie Zerai, Agenzia Habeshia Roberto Malini, Matteo Pegoraro, Dario Picciau, EveryOne Group Alfred Breitman, Watching The Sky Associazione La Ruota Rossa Associazione Anne's Door Circolo Generazione Italia Milano, Sezione Diritti Umani Contact: Habeshia: agenzia_habeshia@yahoo.it

giovedì 18 novembre 2010

Immigrazione, chi lavora non vede riconosciuti i diritti

TERZO RAPPORTO EMN ITALIA Ricci (Emn): «Il futuro è multiculturale». Amoretti (Cnel): «Gli immigrati in Italia sono maltrattati e imbrogliati» Il “terzo rapporto Emn-Italia” mostra un futuro multiculturale in cui immigrazione e lavoro devono crescere in sintonia. Antonio Ricci, redattore del rapporto e esponente italiano di EMN European migration network, e Aldo Amoretti, del CNEL Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro, ci spiegano l'importanza della formazione e della qualità del lavoro e accusano: «La crisi ha evidenziato la drammaticità delle nostre inefficienze e ingiustizie nei confronti degli immigrati». Il “Terzo rapporto EMN Italia” (un estratto), presentato ieri presso il Consiglio nazionale economia e lavoro di Roma, si concentra quest'anno sul rapporto tra immigrazione e lavoro. Da una parte l'immigrazione risponde alle esigenze per lo sviluppo economico e sociale del Paese e dall'altra l'inserimento lavorativo è visto come fattore fondamentale dell'integrazione degli stranieri. Immigrazione e lavoro in Italia Secondo Aldo Amoretti del Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro, il primo dato che esce da questo rapporto è che l'immigrazione in Italia è strutturale: «la gran parte degli immigrati si ferma, compra casa e avvia esperienze imprenditoriali. Chi viene in Italia per lavorare, per pagare le tasse, per rispettare le leggi dev'essere a sua volta rispettato da noi con tutti i diritti». Antonio Ricci: «Il futuro prevede un'Italia sempre più multiculturale: pensiamo che nel 2050 una persona su cinque sarà straniera: il quesito è come ci stiamo preparando a questo futuro multiculturale». Il mercato del lavoro è l'apripista per l'integrazione, e nel caso italiano non sempre chi lavora vede riconosciuti i diritti: gli immigrati sono privati dei diritti, del permesso di soggiorno e quindi sono estremamente vulnerabili. «Dobbiamo evitare gli errori che stanno commettendo le politiche di certi Paesi europei, come Francia e Gran Bretagna», avvisa Ricci. «Dobbiamo pensare a politiche nostrane misurati sui bisogni del Paese, accogliendo l'aiuto della commissione europea». Non a caso l'ultima versione del “Patto europeo sull'immigrazione e sull'asilo” (2008) invita all'incontro tra le capacità di accoglienza e i bisogni del mercato del lavoro di ciascuno Stato. Attualmente invece la situazione non è rosea: «Gli immigrati in Italia sono maltrattati e imbrogliati», accusa Amoretti pensando agli immigrati di Brescia arrampicati sulla gru, «abbiamo avuto un comportamento sbagliato da parte del nostro Governo». La qualità del lavoro Il vero problema è la qualità del lavoro offerto: «Oggi l'accoglienza lavorativa che riserviamo agli immigrati è dequalificata», spiega Antonio Ricci. «Possiamo parlare di “brain waste” (dispersione di cervelli), ossia accogliamo persone con un profilo professionale medio-alto e offriamo loro un segmento di mercato di lavoro poco qualificato». Vari sono gli indicatori che attestano come non si sia pervenuti ad un utilizzo ottimale della forza lavoro immigrata in un’ottica di reciproca convenienza: per il 7% si registra una situazione di sottoccupazione, per il 15,6% di lavoro a termine (dato che sale al 37,4% per le sole donne immigrate). Inoltre, sono altamente qualificati tra gli italiani il 41,8% dei lavoratori e tra gli immigrati solo il 7,2%; mentre sono a bassa qualifica tra gli italiani il 7,7% e tra gli immigrati il 37,6%.

IMMIGRATI GRU: ARCI, GOVERNO FERMI ESPULSIONI PUNITIVE

(AGI) - Milano, 18 nov. - "Il Governo fermi le retate e le espulsioni punitive per le proteste dei giorni scorsi a Brescia e a Milano". Lo chiedono Filippo Miraglia, responsabile immigrazione Arci, e Ilaria Silvia Scovazzi, responsabile immigrazione Arci Lombardia. "Dopo 17 giorni la protesta dei migranti sulla gru di Brescia e' finita e, mentre alcuni dei manifestanti sono riusciti a strappare un accordo, per migliaia di persone la situazione e' drammaticamente la stessa, se non peggiore - dicono - Il rischio ora e' che, nonostante le mobilitazioni di protesta continuino (prima fra tutte quella alla Torre Ex Carlo Erba di Milano), si spengano i riflettori sulla Sanatoria-Truffa e sulle sue ingiustizie, facendo calare un pericoloso silenzio anche su quello che sta accadendo a poche ore dalla fine della protesta sulla gru. Il Governo e le forze dell'ordine hanno infatti presentato il conto ai lavoratori stranieri di Brescia dando vita a una retata casa per casa in quella che potremmo definire una caccia al migrante, alla ricerca di una qualsiasi irregolarita' amministrativa. La colpa di chi sta subendo queste "ritorsioni" e' quella di aver osato alzare la testa e aver chiesto a gran voce che venissero rispettati i loro diritti. Si usa ancora una volta la linea dura per nascondere le tante ingiustizie delle politiche che il Governo ha ideato con l'unico scopo di raccogliere facili consensi, calpestando i diritti di migliaia di persone. Esprimiamo solidarieta' a tutti i cittadini stranieri che in queste ore rischiano l'espulsione e che sono attualmente rinchiusi nei Cie di Milano, Torino e Gorizia, e, tra i tanti, esprimiamo grande preoccupazione per Mohammed Mimmo, uno dei rappresentati piu' attivi della mobilitazione per il permesso. Mohammed e' stato fermato mentre tornava a Brescia dopo aver partecipato al presidio allestito davanti al consolato egiziano di Milano e, portato in questura, e' stato trattenuto perche' privo del permesso di soggiorno. Chiediamo che vengano garantiti l'assistenza legale e il rispetto dei diritti a lui e a tutti i migranti che, dopo aver partecipato alle mobilitazioni, rischiano l'espulsione". (AGI) Com/Car

Pallottole libiche si pensava fosse un barcone carico di immigrati

Comandante Ariete: dopo pallottole libiche ho perso anche lavoro Gaspare Marrone: di quella inchiesta non si sa più nulla Palermo, 16 nov. (Apcom) - "Siamo stati dimenticati. Abbandonati da quelle istituzioni che avrebbero dovuto garantirci la possibilità di continuare a lavorare, o potere riprendere a farlo". E' questo l'amaro commento di Gaspare Marrone, il comandante del motopeschereccio "Ariete" attaccato nel canale di Sicilia lo scorso 12 settembre, a colpi di mitragliatrice sparati da una motovedetta libica donata dall'Italia. "Essendo rimasti senza imbarcazione, sia io che il mio equipaggio siamo stati licenziati. Qualcuno dei miei uomini è riuscito a trovare un'altra occupazione nel frattempo, ma per me, da quel giorno, è cominciato un vero e proprio incubo, quello dell'incertezza. Dell'impossibilità di portare a casa qualcosa con cui sfamare i miei tre figli". Su quanto accaduto nel canale di Sicilia il comandante dell'Ariete ha replicato e contraddetto in più punti la versione ufficiale del ministro dell'Interno, Roberto Maroni, e del Viminale. Dopo gli esami dei Ris di Messina, che accertarono gli oltre trenta colpi sparati sul natante ad altezza d'uomo, il motopesca Ariete è stato riparato: "L'armatore l'ha rimesso in sesto - spiega il comandante - e quindi l'ha venduto all'estero, in Eritrea. Io e i miei uomini siamo stati interrogati dalla Procura di Agrigento che ha aperto un'inchiesta sulla vicenda, ma poi non ci hanno fatto più sapere nulla. Ripeto, dopo il clamore sollevato i primi giorni, poi siamo stati dimenticati da tutti".

Bollettino quindicinale dell’Ufficio Internazionale del Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati

JRS DISPATCHES N. 289, 29 ottobre 2010 ALCUNI ARGOMENTI IN QUESTO NUMERO RIFUGIATI: NOTIZIE IN BREVE 1. Etiopia: revocato bando all’istruzione a distanza 2. Repubblica Democratica del Congo: le donne chiedono si intervenga contro la violenza 3. Australia: il JRS accoglie con favore l’azione di governo sulla detenzione 4. Nepal: reinsediato un terzo dei rifugiati bhutanesi 5. Sri Lanka: ONG rifiutano di prendere parte a Commissione 6. Haiti: colera, elezioni e rischio di un nuovo sisma 7. Belgio: appello delle ONG contro il respingimento dei richiedenti asilo verso stati che non garantiscono condizioni di sicurezza PROGETTI E ATTIVITÀ DEL JRS: AGGIORNAMENTI 8. USA: il JRS dà il benvenuto al nuovo Direttore 9. Internazionale: il JRS celebra il suo trentennale ponendo al primo posto i rifugiati RIFUGIATI NOTIZIE IN BREVE 1. Etiopia: revocato bando all’istruzione a distanza Mai-Aini, 29 ottobre 2010 – Il ministero dell’istruzione si è appellato contro il decreto che vieta di fornire programmi di istruzione a distanza. Sebbene non siano ancora noti tutti i dettagli della decisione, il JRS spera di poter comunque attuare il suo nuovo programma di istruzione a distanza per i giovani rifugiati eritrei del campo di Mal-Aini. Il decreto, varato il 23 agosto, faceva seguito alle raccomandazioni dell’Agenzia etiope per la certificazione di qualità dell’istruzione e della formazione in uno sforzo inteso a tutelare gli standard educativi nazionali. Tuttavia, in seguito alla condanna di erogatori di servizi educativi privati, e a una serie di riunioni tra le autorità e le parti interessate, la decisione è stata revocata. Per il personale del JRS, impegnato ad assicurare che i rifugiati del campo sul confine settentrionale avessero la possibilità di partecipare a corsi di educazione a distanza presso la Mekelle University, istituzione scolastica pubblica di prim’ordine, il decreto iniziale era stato uno shock. Più di 370 rifugiati si erano iscritti al JRS per ottenere una borsa di studio che consentisse loro di frequentare corsi presso la Mekelle University. Al termine di un rigoroso processo di ammissione, 98 studenti erano risultati idonei per il corso di inglese come lingua seconda. Proprio mentre il divieto veniva reso inaspettatamente noto, il JRS stava per offrire 30 borse di studio a rifugiati eritrei. Secondo il personale del JRS, i rifugiati sperano ora di poter prendere parte al corso. Prevale l’ottimismo “Da quando ho firmato per la borsa di studio del JRS, sogno di poter fare delle letture, scrivere delle buone relazioni, discutere di soggetti accademici con gli amici”, ha raccontato Girma, uno dei leader giovanili del campo. Oltre al bando precedente sui corsi a distanza, il decreto fa divieto alle istituzioni scolastiche private di offrire programmi di diritto e formazione per insegnanti, e riduce l’offerta di programmi di scienze sanitarie. Non è chiaro in quale modo l’ultima dichiarazione del governo influirà su questi corsi. Il campo rifugiati Mai Aini è stato aperto nel 2008 e ospita attualmente una popolazione di 11.000 eritrei fuggiti da un regime caratterizzato da repressione politica, stagnazione economica e coscrizione militare obbligatoria. Il JRS ha iniziato a operare a Mal-Aini nel giugno del 2010, e attualmente sta offrendo corsi di counselling, sport, musica, teatro, arte e danza a 170 rifugiati. inizio pagina 2. Repubblica Democratica del Congo: le donne chiedono si intervenga contro la violenza Roma, 28 ottobre 2010 – Le donne congolesi sono stanche delle conferenze sulla violenza, vogliono iniziative concrete che risalgano all’origine di questi atti – dice sr. Teresina Caffi delle Missionarie di Maria che opera a Bukavu, capitale della provincia del Kivu Sud. Il 17 ottobre, migliaia di donne hanno marciato lungo le strade di Bukavu per protestare contro le continue violenze ad opera dei gruppi armati presenti nella regione. Secondo sr. Caffi, nel conflitto protrattosi nella Repubblica Democratica del Congo orientale per 14 anni, le donne sono state un obiettivo primario. Non si tratta solo del singolo soldato che in preda agli istinti più brutali violenta una giovane donna, ma dell’uso sistematico della violenza sessuale per abbattere psicologicamente le persone. Quando si abusa sessualmente delle donne di fronte ai loro figli e alle loro famiglie, ha proseguito la missionaria, si cerca deliberatamente di distruggere l’umanità di un popolo. Sr. Caffi ha spiegato come anni di conflitto abbiano portato a una banalizzazione della violenza sessuale. I bambini, ha detto, testimoni 20 anni fa della violenza subita dalla madre, sono ora degli adulti e nessuno sa in quale modo e misura questa violenza abbia condizionato il loro equilibrio emotivo. La religiosa ha reso omaggio al coraggio delle donne congolesi che sono riuscite a convivere con questi orrori con coraggio e dignità. Molte donne, dopo aver subito tali violenze, fanno il possibile per tornare alla vita normale e prendersi cura dei figli. Ricostruire con l’educazione La scuola dovrebbe essere un ambiente protettivo per l’apprendimento degli studenti, soprattutto in tempo di guerra. Questi si trovano invece a dover affrontare il reclutamento forzato, le violenze sessuali e altri abusi. L’accesso all’educazione è diventato un lusso riservato esclusivamente ai ricchi. Ecco perché nella provincia del Kivu Nord, solo il 43 percento dei bambini ha accesso alla scuola, mentre il restante 57 percento ne rimane escluso. La mancanza di servizi igienici, di punti di raccolta per l’acqua e di impianti sanitari in genere sono anch’essi all’origine del limitato accesso all’istruzione, soprattutto per le bambine e le ragazze. A tutto ciò si aggiunga lo scarso livello qualitativo in genere dell’istruzione nella Repubblica Democratica del Congo. Per rispondere a questa situazione, il JRS fornisce a migliaia di rifugiati e sfollati nella RDC assistenza umanitaria, soprattutto nel settore dell’educazione e della formazione. I civili continuano a risentire delle conseguenze del conflitto, soprattutto nel nordest e nell’est del paese. Nel 2008, il JRS ha iniziato un programma di istruzione e protezione globale nel Kivu Nord, offrendo formazione a giovani, istruzione primaria e secondaria, e servizi rivolti a persone in condizioni di estrema vulnerabilità. Nel 2009, ha continuato a fornire assistenza a più di 32.000 sfollati. inizio pagina 3. Australia: il JRS accoglie con favore l’iniziativa di governo sulla detenzione Sydney, 18 ottobre 2010 – Il JRS Australia ha accolto con favore l’annuncio fatto dal governo circa l’intenzione di spostare i bambini e le famiglie vulnerabili da strutture per la detenzione ad alloggi in comunità. Il JRS ritiene che le organizzazioni di comunità e caritative che abbiano esperienza in questo ambito sarebbero idonee a cooperare con il governo nel prendersi cura di questa fascia di popolazione. “Riteniamo che si tratti di un’ottima iniziativa, una buona risposta a quanto sia noi sia altre agenzie che si occupano di richiedenti asilo e rifugiati chiediamo da un po’ di tempo: non possiamo tenere persone in detenzione a tempo indefinito, soprattutto i più vulnerabili, minori non accompagnati e famiglie con bambini” ha detto il direttore del JRS Australia, Sacha Bermudez-Goldman SJ. Questa iniziativa è maggiormente in linea con la politica delle New Directions in Detention che il governo aveva discusso la prima volta nel luglio del 2008, secondo cui la detenzione sarebbe stata usata solo come ultima alternativa e per periodi di tempo limitati. P. Bermudez-Goldman SJ ha inoltre sottolineato come per la comunità e le organizzazioni ecclesiali sia una buona opportunità farsi partecipi e rendere disponibili le proprie risorse a questo gruppo vulnerabile”. Dare priorità ai più vulnerabili Nella sua dichiarazione, il governo ha precisato che avrebbe iniziato a trasferire “numeri significativi” di bambini e di famiglie vulnerabili dalla detenzione ad alloggi di comunità. “Sebbene sia difficile determinare il livello di vulnerabilità quando la maggior parte di coloro che vengono presi in considerazione sono bambini, è chiaro che i minori non accompagnati, soli e privi del sostegno dei genitori, costituiscono un gruppo particolarmente vulnerabile”, ha proseguito p. Bermudez-Goldman. Questa svolta darà ai minori non accompagnati l’opportunità – finora negata – di frequentare la scuola, offrendo quindi loro competenze tecniche o di altro genere che potranno utilizzare in seguito in seno alla comunità, se sarà loro concessa protezione in Australia, oppure nei rispettivi paesi di origine se dovranno farvi ritorno. Il provinciale dei gesuiti australiani, p. Steve Curtin SJ, ha detto che qualsiasi iniziativa posta in atto per sottrarre alla detenzione i bambini e le famiglie vulnerabili giunge comunque con forte ritardo sui tempi dovuti. “Ci sono prove sostanziali che indicano come la detenzione prolungata sia dannosa per la salute delle persone, e i gesuiti si rallegrano del fatto che il governo abbia deciso di dare corso a questo cambiamento”, ha detto. inizio pagina 4. Nepal: reinsediato un terzo dei rifugiati bhutanesi Roma, 19 ottobre 2010 – Stando a rilievi statistici prodotti recentemente dal governo nepalese, oltre 36.000 rifugiati bhutanesi sono stati reinsediati in paesi terzi. Si tratta di un aumento significativo che si riferisce agli ultimi venti mesi. In effetti, dal gennaio 2009 sono stati reinsediati ben 28.000 rifugiati bhutanesi. La stragrande maggioranza dei reinsediati – calcolati in 31.133 – è stata diretta negli USA, mentre Australia e Canada ne hanno accolti rispettivamente un paio di migliaia. I rimanenti sono stati inviati in Danimarca, Nuova Zelanda, Norvegia e Regno Unito. Altri 11.732 rifugiati accettati per il reinsediamento sono in attesa di partenza. La popolazione di rifugiati bhutanesi ospitata nei campi al 30 settembre è pari a 75.671 persone, rispetto agli iniziali 111.000, ma si prevede che il gennaio prossimo scenderà a 71.000 persone, alla fine del prossimo anno a 55.000, e a 30.000 entro il gennaio 2013. Sulla base di queste proiezioni, il JRS calcola di far proseguire il programma fino all’inizio del 2014. I rifugiati sono stati divisi in due categorie, quelli che sono favorevoli al reinsediamento e quelli che desiderano essere rimpatriati. Stando ai dati statistici sul reinsediamento, al 30 settembre 2010 meno del 20 percento della popolazione iniziale di rifugiati bhutanesi presenti nei campi del Nepal orientale non ha espresso interesse a trasferirsi in un paese terzo. La maggior parte degli appartenenti a questo gruppo continua a sperare che un giorno venga loro permesso di rientrare in patria. Anni di attesa Ci si aspetta che le prossime missioni provenienti dall’Australia in novembre, dal Canada e Paesi Bassi in ottobre e dagli Stati Uniti in novembre stabiliscano le date di partenza delle persone accettate rispettivamente dai quattro paesi. Sono trascorsi oltre vent’anni da quando oltre 105.000 bhutanesi di etnia Lhotsampa sono fuggiti dal Bhutan al Nepal attraverso una sottile striscia di territorio indiano che separa i due stati. Le forze di sicurezza indiane hanno scortato i rifugiati fino al Nepal. Gli altri rifugiati vivono in sette campi gestiti dall’UNHCR situati in due distretti del Nepal orientale. Un numero assai contenuto mette insieme di che vivere giorno per giorno in India. Nel corso degli anni, Nepal e Bhutan hanno intrapreso ripetutamente trattative per risolvere la questione. Ne è risultato, i dati sono stati resi pubblici nel 2003, che soltanto al 4 percento dei rifugiati è stato concesso il diritto di rientro incondizionato, mentre a un 71 percento è stata data la possibilità di ritornare a patto di rispettare una serie di pesanti condizioni, quali il superamento di esami di lingua, la residenza obbligatoria in determinate strutture, ecc. A seguito di successivi disordini verificatisi in alcuni campi, il governo bhutanese ha sospeso il processo, avanzando a giustificazione timori per la sicurezza. inizio pagina 5. Sri Lanka: ONG rifiutano di prendere parte a Commissione Roma, 20 ottobre 2010 – Un gruppo di ONG internazionali – Human Rights Watch, Amnesty International e l’International Crisis Group – ha respinto l’invito del governo a comparire dinanzi alla Lessons Learnt and Reconciliation Commission (LLRC), definendo quest’ultima non attendibile. In una lettera aperta alla Commissione, il gruppo ha dichiarato che avrebbe accettato di comparire dinanzi a un’entità genuinamente e credibilmente impegnata a conseguire un’assunzione di responsabilità e la riconciliazione nello Sri Lanka, precisando al contempo che l’LLRC è lungi dal perseguire un tale obiettivo. A quanto sostengono le organizzazioni umanitarie, l’LLRC non soltanto difetta dei criteri fondamentali fissati a livello internazionale per poter svolgere inchieste indipendenti e imparziali, ma agisce anche sullo sfondo di un mancato impegno da parte del governo in fatto di lotta all’impunità e alle continue violazioni dei diritti umani. A dispetto di una serie infinita di rapporti su violazioni commesse nel paese, dalla fine del conflitto lo Sri Lanka non ha fatto alcun passo avanti nel trattare le spinose questioni che vi sono ampiamente riferite. Va aggiunto che, secondo le ONG, l’LLRC è piena di difetti tanto nella sua struttura che nella sua pratica. Nonostante sia incaricata di indagare su ogni verosimile accusa di violazione dei diritti umani da parte di forze sia ribelli che governative, in particolare durante le ultime fasi del conflitto ha dimostrato di non avere alcun vero interesse a indagare su accuse mosse alle forze armate governative. Difetto di indipendenza e protezione Presupposto fondamentale per qualsiasi commissione di questo tipo è che i suoi membri siano indipendenti. L’appartenenza all’LLRC, precisa la lettera aperta, è lungi dal rispecchiare questo presupposto, avendo la Commissione accolto nella sua compagine alti rappresentanti di governo che hanno pubblicamente difeso la condotta dei militari accusati di crimini di guerra. Preoccupa peraltro enormemente l’assenza di qualsivoglia norma a tutela dei testimoni, soprattutto in uno scenario che vede esponenti di governo etichettare come “traditori” persone che muovono accuse contro le forze armate. A ciò si aggiunga che, pur essendo concluso il conflitto, il paese si trova sempre ancora a operare in uno stato di emergenza, con leggi che criminalizzano il discorso politico e nessuna seria indagine viene svolta nel caso di attacchi contro chi si azzarda a criticare il governo. Ciò incide chiaramente sulla capacità della LLCR di condurre indagini credibili a fronte di presunte violazioni delle leggi nazionali e internazionali. Fintanto che non è garantita un’efficace protezione dei testimoni, nessuna organizzazione o singolo individuo potrà responsabilmente rivelare alla Commissione informazioni riservate. 6. Haiti: colera, elezioni e rischio di un nuovo sisma Port-au-Prince, 26 ottobre 2010 – A un mese dalle elezioni presidenziali e legislative haitiane, previste per il 28 novembre, l’epidemia di colera che ha colpito il paese è al centro dell’attenzione dei media nazionali e internazionali. A quanto riferiscono le autorità sanitarie, che pur assicurano essersi la situazione stabilizzata fin dal 25 ottobre, la malattia ha già mietuto 380 vittime e richiesto il ricovero di 3.600 malati. Stando a Nigel Fisher, vice-rappresentante speciale delle NU per Haiti, la situazione è comunque critica, e sarebbe irresponsabile non prepararsi ad altre più gravi esplosioni epidemiche. Temendo un allargamento ulteriore dell’epidemia, molti analisti si chiedono se la campagna elettorale non vada interrotta a scanso di maggiori occasioni di contaminazione. Questa recente crisi umanitaria si verifica dopo un anno di disastri: il terremoto del 12 gennaio, l’uragano del 24 settembre, e ora l’epidemia di colera. Va detto al proposito che secondo un gruppo di esperti della Purdue University (India), il sisma di gennaio era da imputarsi a una faglia all’altezza di Leogane, nella parte occidentale di Haiti e non, come si pensava, nella vicina Repubblica Dominicana. Affrontare le cause della vulnerabilità a Haiti A quanto sostiene il responsabile per le Comunicazioni del JRS America Latina, Edson Louidor, bisogna prendere seriamente e urgentemente in considerazione questi rischi per impedire o quantomeno contenere l’impatto dei disastri naturali. “Le conseguenze dei disastri non sono naturali. La vulnerabilità della popolazione è determinata soprattutto da una serie di fattori socioeconomici, politici e persino culturali che incidono sulle capacità dei singoli e dei gruppi di anticipare, fare fronte, resistere e riprendersi dall’impatto di una manifestazione naturale di grave entità”, ha soggiunto. “Quali sono ad Haiti le cause determinanti la vulnerabilità?” Intorno a questo interrogativo dovrebbero ruotare tanto il processo di ricostruzione quanto il dibattito elettorale. I disastri che colpiscono il paese a causa della sua vulnerabilità potrebbero e dovrebbero costituire un’occasione per porre le basi di una nuova Haiti democratica e partecipativa. Purtroppo, l’attenzione si è incentrata sull’aspetto emergenziale umanitario, determinando un pronto intervento in occasione di ciascun disastro, trascurando però di considerare le misure preventive. A un solo mese dalla consultazione elettorale, i candidati non hanno ancora presentato proposte concrete per la soluzione dei problemi del paese, tra cui misure di prevenzione dei disastri, una riforma agraria, il decentramento, le politiche sociali (nei campi educativo, sanitario, dell’edilizia), la disoccupazione, la deforestazione. E un grave silenzio cala in aula quando si presentano interrogazioni circa la responsabilità del decidere sulle priorità nazionali, sulla risposta alle necessità delle popolazioni colpite e sfollate, e l’assicurare che gli haitiani siano protetti contro i rischi sismici e di altra natura che si profilano all’orizzonte. inizio pagina 7. Belgio: appello delle ONG contro il respingimento dei richiedenti asilo verso stati che non garantiscono condizioni di sicurezza Bruxelles, 21 ottobre 2010 – Il ministro degli esteri belga, Melchior Wathelet, ha deciso di non rimandare più richiedenti asilo in Grecia, in quanto paese che non rispetta i diritti dei rifugiati. Sarà il Belgio a farsi carico delle pratiche di asilo. Amnesty International, CIRE, la Commissione belga per il sostegno ai rifugiati, JRS Belgio e Vluchtelingenwerk Vlaanderen hanno accolto con favore questa decisione. In particolare, il JRS e altre ONG hanno chiesto con forza che venga riveduto il Regolamento di Dublino che autorizza il respingimento dei rifugiati verso paesi che non assicurano una sufficiente protezione dei loro diritti. La decisione del ministro degli Esteri dimostra quanto sia necessario rivedere il Regolamento. A quanto stabilisce il Regolamento, spetta allo stato UE cui il richiedente asilo approda in prima istanza trattare la pratica di asilo; norma, questa, che ha determinato una forte pressione sugli stati posti ai confini dell’UE. Occorre sostituire la normativa in questione con un sistema più equo sia per i richiedenti asilo che per i singoli stati. Un primo passo nella giusta direzione sarebbe l’introduzione di un meccanismo sospensivo temporaneo da applicarsi laddove lo stato in questione è oberato da un importante flusso in entrata di richiedenti asilo o nel caso in cui la procedura di riconoscimento dello status dei rifugiati non si conformi alle norme europee e internazionali. Il ritorno dei richiedenti asilo a quegli stati potrebbe essere quindi sospeso temporaneamente, mentre l’UE chiederebbe loro di rispettare gli obblighi di legge e procederebbe concretamente a rettificare le loro carenze. Al momento soltanto alcuni stati hanno sospeso i respingimenti in Grecia. Un meccanismo sospensivo imporrebbe a tutti gli stati dell’UE di adottare le medesime misure. I tribunali tutelano i richiedenti asilo La decisione del ministro Wathelet era attesa da lungo tempo. La Grecia rappresenta uno dei punti principali di ingresso nell’UE e viene vista come il peggior incubo per i richiedenti asilo, dove sono costretti a vivere in strada o essere rinchiusi in centri di detenzione sovraffollati, le condizioni igieniche sono a dir poco precarie, e le procedure di asilo sono una chimera. Un iracheno non ha quasi alcuna probabilità di ottenere protezione in Grecia, mentre nei Paesi Bassi, per esempio, lo status di rifugiati viene riconosciuto al 77 percento degli iracheni. Recentemente l’Agenzia delle NU per i rifugiati (UNHCR) ha definito la situazione in Grecia un vero disastro umanitario. In questi ultimi anni, il JRS ha esercitato pressioni sugli stati dell’UE perché ponessero fine ai respingimenti in Grecia dei richiedenti asilo, dove nel contempo i rifugiati iracheni e afghani vivono nel costante rischio di essere rimandati nei rispettivi paesi di origine. Seppure non di propria iniziativa, Norvegia, Regno Unito e Paesi Bassi hanno seguito di recente l’esempio del Belgio. In effetti, sono stati i tribunali nazionali ed europei a imporre loro di non rimandare richiedenti asilo in Grecia. Il Belgio sta rischiando una condanna da parte della Corte europea per i diritti umani in merito a un caso emblematico: nel 2009 il Belgio aveva respinto un richiedente asilo afghano in Grecia che oggi vive in strada, senza poter accedere a una giusta procedura di asilo. La proposta di revisione del Regolamento di Dublino è in fase di dibattito in sede europea. La Commissione Europea ha presentato una buona proposta di riformulazione del Regolamento; tocca ora alla presidenza belga usare del proprio peso politico in sede di trattativa perché la revisione porti a un’equa riforma del Regolamento. AGGIORNAMENTI SUI PROGETTI DEL JRS 8. Stati Uniti: il JRS dà il benvenuto al nuovo Direttore Washington DC, 18 ottobre 2010 – P. Michael Evans SJ è stato nominato sesto direttore del JRS Stati Uniti, subentrando a p. Kenneth Gavin SJ, che l’anno prossimo assumerà la carica di Vice-direttore internazionale, presso la sede del JRS Internazionale a Roma. Dal 1990 a tutto il 1996, p. Evans è stato direttore regionale del JRS Africa Orientale, e dal 2000 a tutto il 2010 direttore per lo sviluppo ed economo della Provincia gesuita dell’Africa Orientale. La profonda esperienza e conoscenza del JRS maturata dal p. Evans gli sarà di grande utilità e renderà più agevole l’assunzione del nuovo incarico, tenuto conto del fatto che intende guidare il JRS Stati Uniti verso un futuro di costante accompagnamento, servizio e difesa dei rifugiati bisognosi di aiuto. P. Evans ricorda bene la lettera scritta nel 1980 dall’ex Superiore Generale della Compagnia di Gesù, p. Pedro Arrupe SJ, ai confratelli gesuiti, in cui questi chiedeva “a ciascun gesuita del mondo di considerare in qual modo la sua vita personale, le sue azioni, il suo apostolato istituzionale, ecc. possano iniziare a far fronte alla crisi mondiale dei rifugiati”. L’ex direttore del JRS Stati Uniti passa al JRS Internazionale Nel 2003, p. Kenneth Gavin SJ è entrato a far parte del JRS Stati Uniti; dal 1996 al 2002 era stato Provinciale gesuita per l’area di New York. Come vicepresidente del Consiglio statunitense per i Rifugiati nel 2006, p. Gavin aveva fornito alla sottocommissione per il sistema giudiziario del Senato degli Stati Uniti un’irrefutabile attestazione dell’importanza del programma nazionale per i rifugiati, dichiarando che “essi [i rifugiati] hanno osato sperare in un futuro migliore, ed è nostro potere offrire loro una nuova vita e una nuova speranza”. P.Gavin ha continuato a fare dell’accompagnamento attraverso il servizio pastorale ai non-cittadini in stato di detenzione il punto focale dell’attività del JRS, estendendo quella missione alla cura dei migranti espulsi tramite l’originale partnership del JRS Stati Uniti con l’iniziativa Kino Border. Si è dato da fare per accrescere l’impatto del JRS Stati Uniti estendendo l’opera di advocacy a numerose questioni internazionali, vale a dire promuovendo una maggiore presa di coscienza della crisi umanitaria colombiana, la più grave dell’emisfero occidentale, potenziando l’assistenza da parte del Dipartimento di Stato statunitense ai rifugiati colombiani, segnalando la preoccupante situazione della protezione della popolazione tamil in tutto il territorio srilankese, e facendo presente le drammatiche condizioni dei rifugiati urbani di tutto il mondo. “Pur riconoscendo l’aiuto prezioso dato da amici e collaboratori, in questo momento non posso non rivolgere il mio pensiero a tutti i rifugiati e sfollati con la forza che ho incontrato e accompagnato in questi ultimi sette anni. Come per tanti prima di me al JRS, essi hanno letteralmente trasformato la mia vita”, ha detto p. Gavin. inizio pagina 9. Internazionale: il JRS celebra il suo trentennale ponendo al primo posto i rifugiati Roma, 29 ottobre 2010 – Il 14 novembre 1980, in un mondo dominato dalle ideologie e dalla repressione, i gesuiti si sono attivati per rispondere alle necessità di ordine umanitario ed educativo dei “boat people” vietnamiti, dando così i natali al JRS. Oggi il numero degli sfollati con la forza di tutto il mondo è salito dai 16 milioni di allora a 45 milioni. Per commemorare i 30 anni di servizio ai rifugiati, tre organizzazioni gesuite – JRS, Centro Astalli e Magis – stanno organizzando una serie di eventi che si svolgeranno il mese prossimo. Il 9 novembre, l’ex direttore del JRS Internazionale, Mark Raper SJ, terrà presso la Pontificia Università Gregoriana una lectio magistralis dal titolo “Il mondo in movimento – La risposta dei gesuiti ai rifugiati”. Il 13 e 14 novembre saranno celebrate due messe seguite da un concerto dei “Sonidos de la Tierra” rispettivamente nelle chiese gesuite del Gesù e di San Saba. L’orchestra formata da 40 giovani elementi provenienti da comunità emarginate, di cui alcuni sfollati, eseguiranno brani di musica moderna e tradizionale africana, asiatica, latinoamericana ed europea. Il tema, che va al di là delle barriere culturali e linguistiche, è testimonianza di un mondo che sogna una pace senza confini. Mantenere la profondità della missione del JRS A trent’anni dalla visione iniziale del suo padre fondatore ed ex superiore generale Pedro Arrupe SJ, il JRS – organizzazione umanitaria internazionale con progetti in corso in 51 paesi del mondo – ha accresciuto in misura esponenziale la portata dei suoi servizi negli ambiti educativo, dell’assistenza nelle emergenze, dell’assistenza sanitaria e nella protezione dei diritti umani in favore di oltre mezzo milione di rifugiati. Pur fornendo una gamma di servizi intesi a contrastare lo sfollamento, il JRS è specializzato nell’educazione, dando così ai rifugiati una speranza per il futuro. In tutto il mondo il JRS provvede a fornire servizi educativi di primo, secondo, terzo livello nonché servizi educativi attitudinali a quasi 280.000 bambini, giovani e adulti. Negli ultimi 30 anni, il JRS è rimasto fedele alla propria missione di recarsi là dove maggiore è il bisogno, andando via solo dopo che le sfide sono state affrontate e i problemi risolti. Operando in collaborazione con tutte le persone di buona volontà con una presenza non finalizzata al proselitismo, il JRS accoglie persone di ogni tradizione che vogliano condividere e contribuire alla sua missione. inizio pagina JRS DISPATCHES è inviato dall’Ufficio Internazionale del Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati, CP 6139, 00195 Roma Prati, Italia. 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martedì 9 novembre 2010

Brescia e gli immigrati: vietato protestare sotto la gru

Il blitz, come sempre, è scattato all’alba: nel mirino alcune decine di cittadini, italiani e stranieri (tra cui un cronista di Radio Onda d’Urto) che presidiavano in un cantiere bresciano la base della gru su cui sono arrampicati dal 30 ottobre sei immigrati, i quali rivendicano il rilascio del permesso di soggiorno. Così ieri mattina le istituzioni hanno tramutato in fatto di ordine pubblico la protesta di alcuni cittadini stranieri saliti fino a 35 metri di altezza per cercare di spostare l’attenzione sul loro dramma quotidiano, sul diritto ad un’esistenza dignitosa. Poco più di venti persone sono state condotte in questura in seguito alle scaramucce con le forze dell’ordine in concomitanza con l’intervento di sgombero. Tre di loro sarebbero agli arresti. Dal canto loro, i sei immigrati hanno assistito alla scena dall’alto, correndo avanti e dietro lungo il braccio meccanico e urlando slogan. La questura ha ricostruito, piuttosto curiosamente, i motivi che hanno portato all’atto di forza: “Nelle prime ore del mattino è stato condotta un’operazione finalizzata alla messa in sicurezza del cantiere della metropolitana di Piazzale Cesare Battisti. Lo scopo – si legge ancora in una nota – è stato garantire le condizioni di sicurezza degli stessi manifestanti, liberando da eventuali curiosi o assembramenti di persone il piazzale sottostante la gru, in modo che nessuno possa accedere al cantiere se non autorizzato e mettere in pericolo la sicurezza propria o altrui”. Si sarebbe dunque trattato di uno sgombero in qualche modo solidale con le ragioni della protesta degli immigrati, per quanto anch’essi abbiamo temuto di essere a loro volta presi di mira al punto da aver deciso, ieri pomeriggio, di iniziare uno sciopero della fame. “A tutela degli stessi 6 manifestanti posizionati sulla gru – recita eppure la nota della polizia bresciana – è stato espressamente chiarito loro che l’operazione non era in alcun modo finalizzata a farli scendere con l’uso della forza, bensì a garantire che altri non accedano alla struttura recando pregiudizio alla propria e loro incolumità”. Ancora più curiosamente, per usare un eufemismo, la presa di posizione del Partito Democratico – per bocca di Emanuele Fiano, responsabile sicurezza, e Livia Turco, responsabile politiche sociali e immigrazione – è apparsa in sintonia con la nota diffusa dalla questura cittadina: “Riguardo a quanto sta accadendo a Brescia, con sei immigrati che sono da diversi giorni su una gru a 40 metri di altezza, il primo e più importante valore da salvaguardare è quello della loro incolumità. La tensione che sale di ora in ora – hanno proseguito – ci dice che è necessario agire subito affinchè non accada nulla di irreparabile”. I due parlamentari piddini hanno inoltre auspicato interventi da parte della prefettura di Brescia e del ministero dell’interno a garanzia di una trasparente valutazione delle situazioni personali dei sei immigrati, che dovranno essere “esaminate caso per caso e, laddove sussistano situazioni di un loro diritto che non sia stato rispettato, occorre che questo venga difeso”. Senonchè a tutela dell’incolumità dei migranti la polizia ha proprio giustificato lo sgombero, dunque non è chiaro come si possa, su questa base, “riaprire un dialogo” come chiesto dai dirigenti Democratici. Più polemici i Radicali: “L’irragionevolezza ha prevalso – hanno osservato i parlamentari Rita Bernardini e Marco Perduca – da stamattina (ieri, ndr) a Brescia si è deciso di risolvere con la forza l’occupazione che dura da 9 giorni di una gru da parte di migranti frodati dalla cosiddetta sanatoria colf-badanti. La situazione è estremamente tesa e noi radicali che abbiamo seguito quest’iniziativa sin dall’inizio avevamo detto che l’unica soluzione doveva essere il dialogo con questi migranti esasperati dall’insipienza della legge di regolarizzazione di una sola categoria di lavoratori e chiedevamo se, infine, il ministro Maroni non ritenesse fosse arrivato il momento di ridiscutere le diverse posizioni dei migranti di Brescia, per giungere a un accordo rispettoso dei diritti umani”. Non si può portare all’esasperazione “persone che hanno scelto una forma nonviolenta di azione per i propri diritti – hanno aggiunto i Radicali – e naturalmente pur comprendendo la disperazione dei migranti sulla gru li invitiamo a continuare a resistere in modo non violento senza compiere gesti irreparabili”. D’altra parte, è difficile pensare a degenerazioni violente, a meno che non subentri la disperazione nei sei migranti protagonisti della clamorosa protesta. C’è Sajad, pachistano, laureato con un master in lingue; Papa, disoccupato senegalese di 20 anni, da 5 Brescia con i genitori; Singh, indiano di 26 anni con vari lavori saltuari alle spalle dal 2004; Rachid, 35 anni, marocchino costretto a lasciare la scuola dopo la prima media e a trovarsi più d un lavoro per contribuire a mantenere una famiglia numerosa; Sajad, pachistano della zona di Guajarat, 27 anni, laureato con un master in lingue, lontano dalla famiglia da 3 anni; Arun, altro pachistano, 24 anni, anch’egli del Gujarat, con un titolo di studio equivalente alla terza media, e che sopravvive distribuendo volantini in nero; infine Jimi, 25 anni, da cinque in Italia, prima metalmeccanico in una piccola azienda bresciana e da agosto rimasto disoccupato. Insomma, i risvolti sindacali non mancano di certo in questa drammatica vicenda e li ha sottolineati Nicola Nicolosi, segretario confederale Cgil e coordinatore dell’Area programmatica ‘Lavoro società’: “Lo sgombero è un atto gravissimo – ha sostenuto Nicolosi – e segna nel modo peggiore tutta la distanza tra le istituzioni e i più deboli, costretti a ricorrere a proteste eclatanti per affermare il primato dei diritti, ad iniziare dal diritto al lavoro e alle tutele minime. La Cgil – ha proseguito il sindacalista – si sente vicina al dramma dei lavoratori migranti, è impegnata da anni in una dura battaglia per il pieno riconoscimento delle garanzie sociali a loro dovute, contro la perdurante e insopportabile ipocrisia di parte del mondo imprenditoriale e della classe politica”. I lavoratori migranti pagano le tasse, creano ricchezza “e anche quando sono indotti a permanere in una condizione di clandestinità – ha aggiunto Nicolosi con riferimento alla protesta di lavoratori ‘clandestini’ – vengono sfruttati due volte: da chi affitta loro gli alloggi e da chi li ricatta attraverso il lavoro nero. E nonostante ciò, i cosiddetti ‘irregolari’ devono persino sopravvivere scappando, per evitare provvedimenti di espulsione. Per mille motivi, insomma, decidere di affrontare con metodi polizieschi i problemi vissuti dai lavoratori immigrati è incivile oltrechè profondamente sbagliato. Ecco perchè l’area programmatica ‘Lavoro Società’ della Cgil, oltre a denunciare quanto di grave sta accadendo – ha concluso Nicolosi – chiede a gran voce che prevalgano immediatamente ragionevolezza e buon senso”. Paolo Repetto