mercoledì 28 luglio 2010

Eritrei in Libia: l’odissea continua

Ismail Ali Farah Gli hanno rilasciato un permesso di soggiorno della durata di tre mesi, ma nessuno sa che fine faranno allo scadere del documento. Dei 205 eritrei rilasciati, alcuni sono riusciti ad uscire dalla cittadina di Sebha in pieno deserto libico. Altri rimangono ancora bloccati. Un centinaio è riuscito a raggiungere la costa, mentre altri sono ancora bloccati a Sebha nel profondo del deserto libico. Continua l'odissea dei 205 rifugiati eritrei, a cui le autorità libiche hanno rilasciato un permesso di soggiorno temporaneo di tre mesi, dopo le pressioni subite dalla comunità internazionale. Si erano rifiutati di compilare un modulo prestampato di rimpatrio "volontario" fornito dal governo eritreo e imposto con la forza dalla polizia libica. A questo è seguito il trasferimento di donne, uomini e bambini alla prigione infernale di Al-Biraq, nel pieno del deserto. Il trasferimento è avvenuto in condizioni disumane: 12 ore in un container in viaggio sotto il sole del deserto, percossi e mantenuti in vita con piccole razioni di acqua e cibo. Poi, il 17 luglio, il permesso di soggiorno, con l'obbligo, però, di rimanere entro i confini della cittadina di Sebha. La domanda è ora: cosa succederà al termine di quei tre mesi? Le autorità libiche assicurano che il documento permetterà loro di trovare un lavoro. Anche se è più facile credere che tentino, anche loro, la traversata, in fuga verso l'Europa. Il rimpatrio in Eritrea significa, infatti, lavori forzati, carcere, se non, addirittura, la morte. Chi fugge clandestinamente e viene identificato dalle autorità eritree, vede la propria famiglia perseguitata o colpita da multe che si traducono, poi, in carcere. Gran parte della popolazione eritrea vive in condizioni di povertà, mentre il regime di Isaias Afewerki impone una leva militare obbligatoria praticamente a vita. Il controllo in patria e all'estero è capillare. Nonostante l'ufficio libico dell'Agenzia Onu per i rifugiati (Unchr) abbia riaperto i battenti, rimane un'impresa impossibile, per quei 205 "ex detenuti", raggiungere l'Unchr e chiedere asilo politico. I funzionari dell'Onu non possono, infatti, uscire dal percorso casa-lavoro, imposto loro dalle autorità libiche. «La questione è semplicemente uno dei tanti casi che ci permettono di rinnovare quanto stiamo chiedendo ormai da tempo» spiega padre Mussie Zerai, presidente dell'Agenzia Habeisha, che si occupa di dare sostegno ai richiedenti asilo e rifugiati presenti in Italia. «Serve un "corridoio" che permetta ai richiedenti asilo di raggiungere l'Europa, evitando le traversate in mare» dice Zerai. «Basterebbe che ogni Stato membro si dichiarasse disponibile ad accogliere 10 eritrei» scrive Gabriele del Grande sul suo Fortress Europe, osservatorio sulle morti dei migranti nel Mediterraneo. «Ricordatevi di loro la prossima volta che si conteranno i morti al largo di Lampedusa, ricordatevi che li avevamo incontrati prima, quando ancora erano nelle carceri libiche, che ci eravamo spesi per la loro liberazione, ma che poi nessun paese li volle accogliere». (L'intervista audio a p. Mussie Zerai, estratta dal programma di Afriradio 'Africa Oggi' è realizzata da Michela Trevisan e Ismail Ali Farah) Nigrizia - 27/07/2010

mercoledì 21 luglio 2010

Finanziamenti ai Comuni siciliani per i rifugiati politici

Il Ministero degli Interni, su richiesta dell'assessore della Regione siciliana, Mario Centorrino, nella sua qualità di presidente della Commissione per gli Affari comunitari ed internazionali, istituita presso la Conferenza delle Regioni, ha reso noto l'ammontare e la destinazione dei finanziamenti per il 2010 concessi ai comuni siciliani per l'assistenza ai rifugiati politici che godono del diritto d'asilo. Secondo la ripartizione del Ministero i progetti finanziati per il 2010 per la regione Sicilia sono 103 per le categorie vulnerabili (per categorie vulnerabili, si intendono i minori non accompagnati, i disabili, gli anziani, le donne singole in stato di gravidanza, i genitori singoli con figli minori, le persone per le quali è stato accertato che abbiano subito torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale, nonchè i soggetti che necessitano di assistenza sanitaria e domiciliare specialistica e/o prolungata e coloro che presentano una disabilità anche temporanea) per un contributo totale di 1.250.314,49 euro, il 18,76 per cento del contributo nazionale, e 321 progetti per le categorie ordinarie, per un contributo netto assegnato di 3.094.248,29 euro

Giallo sulla morte di un rifugiato

Il cadavere di Daniel Tewelde, 23 anni, eritreo con lo status di rifugiato, è stato trovato ieri mattina nel bosco di Cantalice (Rieti), a poche centinaia di metri dalla casa in cui abitava. Secondo quanto appreso la morte potrebbe essere stata causata da impiccagione perché il giovane è stato trovato inginocchiato ai piedi di un albero con al collo un cordino di nylon dello stesso tipo utilizzato per legare i pacchi regalo. In base ai primi accertamenti dei carabinieri e del medico legale, l'uomo potrebbe essere morto da più di tre giorni. A ritrovarlo dopo lunghe ricerche sono stati alcuni amici e conoscenti, che avevano rinvenuto il motorino del giovane sul ciglio della strada. Tewelde aveva lasciato a casa sia il portafogli sia i telefoni e il personal computer, sul quale ora verranno eseguite le verifiche del caso. Secondo le prime ipotesi investigative, il ragazzo era stato visto l'ultima volta giovedì scorso alla sede della Caritas di Rieti. I volontari hanno riferito che il giovane appariva molto nervoso e non aveva voluto rivelare i motivi del suo stato. Incrociando le testimonianze con le ricerche sui documenti nel computer e le ultime telefonate effettuate, gli investigatori ritengono di poter intanto stabilire gli ultimi movimenti del giovane. La posta rivelerà i suoi ultimi contatti. Si punta a stabilire se avesse ricevuto minacce. Il giovane eritreo aveva trovato lavoro presso un'azienda reatina e, secondo quanto appreso, il contratto gli sarebbe dovuto essere rinnovato in questi giorni. http://www.iltempo.it/lazio_nord/2010/07/21/1181922-giallo_sulla_morte_rifugiato.shtml?refresh_ce

martedì 20 luglio 2010

Rilasciati gli eritrei di Braq

Il 17 luglio sono stati rilasciati i 205 eritrei che erano rinchiusi nel carcere militare di Braq e che poi erano stati spostati. In mano, hanno un permesso di soggiorno valido tre mesi. Poi torneranno nella clandestinità. «Cosa accadrà fra tre mesi quando il permesso di soggiorno scadrà?» chiede padre Mussie Zerai, direttore a Roma dell’organizzazione non governativa Habeshia ed eritreo come la gran parte dei migranti rilasciati dal centro di Braq. Nel fine settimana, dopo la loro liberazione, padre Mussie ha parlato con diversi di loro. Dice che i permessi di soggiorno concessi da Tripoli consentono alla Libia e all’Italia di «abbassare la tensione» su una vicenda scomoda, della quale si erano finalmente occupati anche agenzie di stampa e giornali nazionali. Secondo l’ambasciatore libico a Roma, Hafed Guddur, gli oltre 200 profughi eritrei liberati dal centro nella regione di Sabha «potranno reinserirsi nel tessuto sociale trovando lavoro e alloggio». Il direttore di Habeshia, però, sottolinea che allo scadere dei tre mesi i migranti rischiano di tornare a essere «clandestini» in un paese dove non possono neanche presentare domanda di asilo politico. «L’unica soluzione – sostiene padre Mussie – è il reinsediamento degli eritrei in Italia o comunque in Europa, dove è rispettata la Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status dei rifugiati». Sabato, dopo il rilascio dei migranti, diversi organismi impegnati nella difesa dei diritti umani avevano sottolineato l’importanza che non fossero state decise deportazioni in Eritrea. Un fatto positivo anche secondo padre Mussie, che però avverte: «L’Europa ha costruito un muro senza porte, che tiene fuori perfino i migranti in fuga da conflitti o regimi autoritari, dalla Somalia, dall’Eritrea o dal Darfur». Anche per Christopher Hein, direttore del Centro italiano per i rifugiati [Cir], «la vicenda non è chiusa, è vero, ma almeno nell’immediato i migranti sono in libertà e non rischiano una deportazione». Secondo Hein gli interrogativi da sciogliere restano molti, soprattutto perché i migranti sono «richiedenti asilo in un paese che non riconosce la condizione di rifugiato». In Libia, ricorda il direttore di Cir, l’ufficio dell’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati [Acnur/Unhcr] opera a regime molto ridotto e il lavoro degli organismi internazionali resta difficile nonostante negli ultimi anni ci siano state alcune aperture. In questo contesto, segnato da negoziati e tensioni diplomatiche, si è inserito nel fine settimana l’annuncio dell’ambasciatore di Tripoli in Italia sulla chiusura dei 18 centri di detenzione per migranti in territorio libico. «In queste strutture – dice Hein – erano prigionieri circa 4 mila migranti, una chiusura segnalerebbe un cambiamento di politica rilevante». Aiuta a capire una testimonianza rilasciata da Lawrence Hart, responsabile a Tripoli dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni [Oim], secondo il quale non bisogna parlare di «chiusura» ma di «sanatoria». «Le strutture si sono svuotate e agli ex detenuti sono stati dati permessi di soggiorno di due o tre mesi – sottolinea Hart – ma negli ultimi giorni i fermi di migranti sono continuati, sia sulla terraferma che in mare». Secondo il Cir almeno 11 degli eritrei deportati nel centro di Braq erano stati respinti dalla Marina militare italiana mentre cercavano di raggiungere l’isola siciliana di Lampedusa su imbarcazioni di fortuna. Fonti della Misna in Libia leggono le liberazioni del fine settimana nel quadro dei complessi rapporti tra Tripoli e l’Europa: «È come dire ‘noi non ce la facciamo’, che è facile criticare senza assumersi responsabilità in termini di accoglienza».

Gheddafi chiude i centri di permanenza e libera migliaia di immigrati

di Corrado Giustiniani dal Fatto Quotidiano Senza soldi sono destinati allo sfruttamento. Notizia confermata dall’ambasciatore libico in Italia: “Non gli daremo più da mangiare” Adesso è tana libera tutti. Gheddafi ha deciso non soltanto di porre fine alla detenzione dei 205 eritrei rinchiusi nel carcere di Braq, ma di tutti gli stranieri trattenuti nei 18 centri di permanenza temporanea del paese: circa 3 mila persone, fra i quali altri 200 eritrei, e poi somali, sudanesi, nigeriani e nigerini. Tutti avranno un documento per circolare all’interno della Libia, della validità di tre mesi: non saranno le ambasciate a fornire i dati, ma gli immigrati stessi, con una loro dichiarazione. La conferma data in Italia Le voci di una imminente liberazione complessiva si erano già diffuse nel pomeriggio del 13 luglio: Laurence Hart, reponsabile dell’ufficio di Tripoli dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim) aveva rivelato che l’ordine era stato appena emesso dal ministero degli Interni libico. Ma la notizia era forse troppo grossa, per essere “creduta” dai media. Ieri, però, è giunta la conferma di Hafed Gaddur, ambasciatore della Libia a Roma. Dal 16 luglio, ha dichiarato all’Ansa, “non ci sono più in Libia centri di accoglienza per immigrati, e tutti coloro che vi erano ospitati sono liberi, avranno documenti temporanei di riconoscimento e potranno reinserirsi nel tessuto sociale, trovando lavoro e alloggio”. Come si spiega l’improvvisa decisione? Con il fatto che queste migliaia di persone sono oggi “un peso”, e la Libia “non si farà più carico di dar loro da mangiare a da dormire”. Libero di lavorare chi vuole, mentre “chi non vuole può tornarsene nel suo paese”. Ma tutti “devono rispettare le leggi della Libia” che, su 5 milioni di abitanti, dà già lavoro a 2 milioni di immigrati: “Una situazione non semplice da sostenere”. Rischio emergenza umanitaria La notizia ha aspetti positivi ed altri ancora oscuri e inquietanti. Da oggi Italia ed Europa hanno tre mesi di tempo per assumere un’iniziativa concreta a favore di chi invoca l’asilo politico. Dei 205 eritrei rinchiusi per 17 giorni nel carcere di Braq, in particolare, almeno la metà erano stati respinti in mare l’anno scorso dalle nostre motovedette, mentre cercavano di raggiungere l’Italia per ottenere lo status di rifugiati. Lo rivelano alcune testimonianze di eritrei raggiunti al cellulare, tra i quali uno che si fa chiamare Daniel, e un filmato di cui è entrato in possesso Il Manifesto. Altro dato di rilievo: Gheddafi sembra aver rinunciato al progetto, annunciato in pompa magna soltanto dieci giorni fa, di identificare i migranti attraverso l’ambasciata eritrea a Tripoli, col rischio di esporli a rischi mortali, essendo quasi tutti disertori fuggiti dal fronte di una guerra ufficialmente cessata da dieci anni, quella con l’Etiopia, e di scatenare rappresaglie contro le loro famiglie. Del resto i ragazzi di Braq erano stati imprigionati proprio per essersi ribellati il 29 giugno alla firma di un consenso all’identificazione. Destinati allo sfruttamento Ma che accadrà una volta scaduto il documento temporaneo? Se non avranno trovato una sistemazione lavorativa adeguata, ottenendo così un permesso di soggiorno in sanatoria, verranno arrestati o espulsi. Fin da ora, dunque, saranno disposti ad accettare lo sfruttamento lavorativo più feroce. Probabilmente già nelle prossime settimane si rimetteranno in mano ai mercanti di vite umane, per tentare di raggiungere l’Europa, attraversando un Mediterraneo che, secondo i dati di Fortresse Europe, dal 1988 ad oggi ha già mietuto 15 mila vittime. D’altra parte l’Europa non ha molte carte da giocare. La Libia non aderisce alla convenzione di Ginevra del 1951. Aveva ammesso per anni il personale dell’Onu per i rifugiati ma ai primi di giugno ha imposto la chiusura dell’ufficio, per riaprirlo a mezzo servizio adesso, a condizione che l’Onu affronti soltanto i casi del passato e non i nuovi. “Non siamo nemmeno in grado di confermare se la notizia della liberazione sia vera” ammette Laura Boldrini, portavoce italiana dell’Unhcr. E l’ambasciatore a Roma Hafed Gaddur avvisa: “Non permettiamo a nessun Paese, amico o no, di intervenire nei nostri affar interni ”. Ma Fortress Europe lancia lo stesso un appello: “Basterebbe che ogni paese europeo si dichiarasse disponibile ad accogliere dieci eritrei, e già sarebbero 270 persone alle quali eviteremmo di rischiare la vita in mare”. Neanche uno spicciolo in tasca I ragazzi di Braq, intanto, sono stati trasportati alla mezzanotte del 15 luglio dal carcere al centro di detenzione di Sebha, 800 chilometri a sud di Tripoli, dove venerdì mattina sono stati rilasciati con quel documento di identità valido per tre mesi su tutto il territorio libico. Ma nessun taxista accettava di caricarli. I pochi che si sono lasciati convincere, hanno dovuto poi fare marcia indietro una volta giunti ai posti di blocco della polizia, che non era stata ancora informata delle novità. La maggior parte non ha uno spicciolo in tasca, e per mangiare si affida al buon cuore dei cittadini. La nuova vita da liberi è cominciata in salita.

lunedì 19 luglio 2010

Gheddafi chiude i Cie libici. E l'Europa fa finta di niente

La notizia è di quelle grosse ma a parte i siti dedicati all'argomento (che giustamente ne sottolineano più le ombre che le luci) la notizia non ha trovato ospitalità praticamente su nessun portale o canale del mainstream. A occuparsi della vicenda c'è solo Il Manifesto. Con una mossa a sorpresa Gheddafi ha ordinato sabato la chiusura dei campi d'internamento libici e la liberazione dei 3000 detenuti che li popolavano, tra cui gli eritrei protagonisti dell'ultima tragica vicenda che ha fatto alzare la voce all'Unioe Europea. Se il Colonnello non è nuovo a mosse a a sorpresa, che ne hanno scandito tutta la biografia personale e politica, quella messa in atto nel week-end potrebbe avere effetti decisivi, mandando all'aria anni di accordi bi-laterali, facendo venir meno il ruolo libico di gendarme meridionale dell'Europa Fortezza e rinviando alla stessa Europa la responsabilità prima sui destini di milioni di uomini e donne che cercano anno dopo anno di varcarne i confini. Certo si tratta di una libertà molto sui generis, che ricalca nelle disposizioni minute molte dei dispositivi europei di gestione dei migranti: 3 mesi di libertà per trovare un posto di lavoro, l'impossibilità in molti casi di uscire dalla città che li "ospitava"... come il caso degli eritrei che da 2 giorni dormono per strada a Sebha, affamati e senza possibilità di migrare altrove, attendendo l'insperata concessioni del diritto d'asilo internazionale. Certo la scelta del presidente libico sembra esser stata dettata soprattutto dal fastidio provocato dai richiami europei sui diritti umani dei campi libici e non da un generale ravvedimento sulle politiche dei transitanti il suolo libico. Probabilmente nuove e succose "offerte" ristabiliranno ruoli consolidati. Nondimeno (almeno per ora) l'iniziativa è destinata ad avere effetti e riproporre l'annosa questione ad un Unione Europea ipocrita e pilatesca che appalta il lavoro sporco ad altri per poi riprenderli perché non usano le buone maniere. Staremo a vedere! tratto da www.infoaut.org 19 luglio 2010 L'intervista a Angelo Del Boca su Il Manifesto di domenica 18 luglio: «Finita la vergogna dei lager, per Roma è uno schiaffo» Intervista di Tommaso Di Francesco «È un sonoro schiaffo all'Italia», così reagisce alla notizia delle decisione della Libia di chiudere tutti i campi di detenzione per immigrati Angelo del Boca, lo storico del colonialismo che aveva denunciato l'esistenza dei campi di detenzione come «nuovi campi di concentramento» all'ultimo convegno di storia italo-libico; e sulla vicenda dei 204 immigrati eritrei deportati fino a Braq, si era appellato al figlio di Gheddafi Seif Al Islam, l'uomo che sta scrivendo la Costituzione libica e che ha mostrato gesti di apertura verso gli oppositori politici. Come giudichi questa decisione del leader libico Gheddafi, confermata dall'ambasciatore libico in Italia Hafed Gaddur? La notizia è di estrema importanza, perché chiude il capitolo ignobile dei campi di raccolta, che poi altro non sono - ora speriamo di dire non erano - che campi di concentramento per i disperati in fuga dall'Africa interna che premono dal grande Sahara su Tripoli. Anche di questi campi è in massima parte responsabile l'Italia, come è dimostrato dalla medesima pratica dei Cie e dagli stessi problemi e polemiche che abbiamo avuto. Sarebbe importante sapere se quello di Gheddafi è l'atto di un autocrate che decide della vita e della morte dei suoi ospiti - ospiti della sua Africa - oppure è un ripensamento vero ed umano. La scelta corrisponderebbe alla sua tempra umana: perché, dopo un'inchiesta rapida che avrebbe dimostrato l'inutilità dei centri di raccolta, altrettanto rapidamente ha preso la decisione di chiuderli. Quali problemi apre questa decisione al Trattato Italia-Libia di due anni fa, dove non c'era menzione dei campi di detenzione ma la Libia s'impegnava a «contenere l'immigrazione clandestina»? Per l'Italia è uno schiaffo. Perché una delle chiavi di volta, oltre al pattugliamento a mare con arrivo di motovedette italiane, era proprio questo sistema di veri e propri lager. Ora non è che la disperazione che spinge popoli interi dal Sahara verso Tripoli finirà. È decisivo capire la conclusione dalla vicenda dei 205 eritrei. Dove andranno i nigeriani liberati dai campi e dove tutti gli altri? Gli eritrei, dopo una forte pressione internazionale e la battaglia di voci libere come il manifesto, sono stati liberati a Braq, possono fare, entro tre mesi quello che vogliono, ma intanto non possono lasciare Seba. E qualora arrivassero a Tripoli, dove potranno mai arrivare ora e quante volte il tempo della loro libertà «entro tre mesi» sarà scaduto? Ecco dunque che l'Italia, che li ha respinti in acque internazionali senza identificarli come avrebbe dovuto, è richiamata subito in causa: perché devono essere ospitati da un paese terzo che riconosce i diritti umani. Forse il cosiddetto contenimento troverà altre forme. C'è la Finmeccanica che sta per avviare la costruzione di un mega-muro tecnologico ai confini del Sahara per fermare i nostri «clandestini»... Sì, c'è anche questa ulteriore mostruosità della Finmeccanica da denunciare. Ma subito l'Italia deve dare una risposta alla decisione di Tripoli, basta chiacchiere del ministro Frattini. Se il sottosegretario Stefania Craxi ha dato la disponibilità ad ospitare temporaneamente una parte dei disperati eritrei di Braq, si passi subito a ospitarli. Il governo Berlusconi prenda un'iniziativa chiara. E l'opposizione - che, senza tanto per il sottile, aveva dato il suo assenso al Trattato Italia-Libia solo perché risolveva l'annoso contenzioso coloniale - se esiste davvero, su questo alzi la voce immediatamente. I diritti umani non possono essere scambiati con la memoria della lotta anticoloniale e ora valgono quanto, se non più, la lotta al potere di un governo corrotto e colluso. E invece nessuno in Italia propone un piano chiaro. Può sembrare incredibile, ma lo sta facendo Gheddafi.

LIBYA DEPORTED ERITREANS: AN OPEN CASE

“What will occur in three months when their stay permits expire?” asks Father Mussie Zerai, Rome director of the Habeshia Non-Governmental Organisation and an Eritrean national like the majority of the migrants released from the Braq centre in Libya. Over the weekend, after their liberation, Fr. Mussie spoke to several of them. He explained to MISNA that the stay permits conceded by Tripoli consent Libya and Italy to “lower the tension” a little on an uncomfortable episode, which had attracted the attention also of the national media. According to the Libyan Ambassador in Rome, Hafed Guddur, the over 200 Eritreans released from the centre in the Sabha region “can reintegrate in the society finding jobs and homes”. The Habeshia director however explained that when their stay permits expire in three months they risk returning to a situation of “illegality” in a country where they cannot even seek political asylum. “The only solution is their reintegration in Italy or however in Europe, where the 1951 Geneva Convention on refugee status is respected”, explained Fr. Mussie. After the release of the migrants on Saturday, various rights groups emphasised the importance that they not be deported back to Eritrea. Also according to Fr. Mussie this decision is very important, but warned that “Europe built a wall with no doors, which keeps out even migrants fleeing conflicts or regimes, from Somalia to Eritrea and Darfur”. [BO]

In Italia ci sono 13 Cie, Medici senza frontiere: situazione esplosiva

ROMA (18 luglio) - I tentativi di fuga dai Centri di identificazione di Milano e Gradisca d'Isonzo sono l'ennesimo campanello d'allarme: la situazione nei Cie, dopo l'entrata in vigore del pacchetto sicurezza che ha allungato da 2 a 6 mesi i tempi di trattenimento dei clandestini, «rischia di rivelarsi esplosiva». Medici senza frontiere aveva dato l'allarme già a febbraio, pubblicando il rapporto "Al di là del muro": un viaggio all'interno dei Centri per gli immigrati svolto tra l'inverno del 2008 e l'estate del 2009. E sono diversi i motivi per i quali i 13 Cie italiani, sottolinea Msf nel suo rapporto, rischiano di esplodere: la «mancanza di linee guida per la pianificazione e la gestione dei servizi, elevata presenza di stranieri ex detenuti (40%), promiscuità tra trattenuti con condizioni sociali, legali e psicofisiche eterogenee». Ma soprattutto, segnalava Msf, «l'allungamento da 60 a 180 giorni del limite massimo di trattenimento sembra determinare uno stravolgimento definitivo della funzione originaria della detenzione amministrativa: non più una misura straordinaria e temporanea di limitazione della libertà per attuare l'allontanamento, ma una sanzione, estranea tuttavia alle garanzie e ai luoghi del sistema penale». Una misura che «se attuata con rigore, rischia di rendere ancora più esplosivo il clima all'interno dei centri». Proprio la «carenza di attività ricreative» per occupare gli immigrati, «obbligandoli ad un'inattività forzata» è, secondo Msf, il punto su cui bisognerebbe intervenire con la massima attenzione. Nel Cie di Gradisca d'Isonzo, ad esempio, spazi abitativi e bagni «sono molto spaziosi e in buone condizioni» ma «le condizioni di trattenimento appaiono seriamente compromesse dall'assenza di attività ricreative». Al momento di stilare il rapporto, annotava però Msf, «nessun ente gestore ipotizza di modificare le modalità di erogazione dei servizi». Un problema che si riscontra anche per quanto riguarda l'assistenza sanitaria degli immigrati. Se, infatti, nel complesso il servizio sembra essere «reattivo» a fornire «cure minime e a breve termine», diverso è il discorso se si prende come punto di riferimento i 180 giorni di trattenimento: ci si trova di fronte ad un approccio «che rischia di non essere più sostenibile». Attualmente in Italia, secondo quanto riporta il sito del ministero dell'Interno, ci sono 13 Centri di identificazione temporanea con una capacità complessiva di 1.920 posti, una capienza che è comunque soggetta a variazioni in caso di eventuali lavori di manutenzione. Si tratta di Bari-Palese (196 posti), Bologna (95), Caltanissetta (96), Lamezia Terme (75), Gradisca d'Isonzo (248), Milano (132), Modena (60), Roma (364), Torino (204), Trapani (43), Brindisi (83), Lampedusa (200) e Crotone (124). A questi, ha detto il ministro dell'Interno Roberto Maroni lo scorso 5 luglio a Trieste, se ne aggiungeranno entro la fine dell'anno altri quattro: uno in Veneto, uno in Toscana, uno nelle Marche e uno in Campania.

L'Ue media sugli eritrei. Incontro tra il commissario agli interni e il ministro libico. «Presto liberi 400 profughi»

Alberto D'Argenzio - il manifesto | 14 Luglio 2010 LIBIA Il direttore dell'Oim annuncia un accordo per la liberazione di 3.000 immigrati dai centri, fra cui anche i 205 che languono a Braq da due settimane. Il ministro degli esteri Koussa parla del rilascio di 400 eritrei. Ma i reclusi nel campo del Sahara ribattono: «Non passeremo mai per la nostra ambasciata, come vogliono i libici» BRUXELLES. Non solo i 205 eritrei detenuti nel campo di Braq da due settimane, ma fino a 3 mila detenuti nei Cpt libici potrebbero presto venire liberati da Tripoli. La notizia è stata data ieri a Bruxelles da Laurence Hart, responsabile dell'ufficio in Libia dell'Oim, l'Organizzazione internazionale per le migrazioni. «Ho appreso poco fa - ha affermato ieri pomeriggio Hart, intervenendo ad un dibattito sul caso degli eritrei nella Commissione Libertà pubbliche del Parlamento europeo - che il ministro degli interni libico ha emesso un ordine per la liberazione di tutte le persone detenute, che sono circa 3 mila, nei 18 Cpt presenti in Libia». La notizia, assicura il rappresentante della Oim, è stata confermata sul campo da una missione dell'Uk board agency, in questi giorni in Libia, e da contatti telefonici con i direttori di alcuni dei centri libici. E non solo, anche un'alta fonte comunitaria presente all'incontro di ieri pomeriggio tra il ministro degli esteri libico Moussa Koussa e la commissaria Ue agli affari interni Cecilia Malmström, ha confermato che questa sarebbe l'intenzione di Tripoli. Detto ciò, non sono ancora chiari né i tempi né le modalità di tali liberazioni. Quanto ai 205 eritrei deportati nel sud della Libia, la loro messa in libertà è stata confermata da Koussa alla Malmström, insieme a quella di tutti gli altri eritrei presenti nei centri di detenzione della Jamahiriya, per un totale di circa 400 persone. Ma quella del rilascio imminente sembra l'unica notizia più o meno certa sul loro futuro. «La loro liberazione è una notizia positiva, perché le condizioni nel campo sono proibitive - spiega un'alta fonte comunitaria - ma ora bisogna seguire il loro futuro con il dialogo politico, con le autorità libiche e l'Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati e l'Oim, evitando che si proceda ad una loro ri-identificazione». Lo stesso Hart ha assicurato che il ministero degli interni libico ha chiesto alla sua organizzazione «di monitorare la situazione degli eritrei» e che al momento non è ancora chiaro se «verranno impiegati nel mercato del lavoro libico o lasciati andare», peraltro in una situazione che è ora di assoluta incertezza legale. Quanto alle responsabilità italiane nella vicenda, legate in particolare al fatto che 103 dei 205 detenuti di Braq sono stati respinti in mare dalle navi italiane, la Commissione Ue continua a mantenere un profilo alquanto basso. Ieri Stefano Manservisi, Direttore generale della DG interni della Commissione Ue, intervenendo al dibattito in Parlamento sugli eritrei, ha affermato che «non abbiamo informazioni su dove sono state intercettate queste persone, non si può dire che Malta doveva fare o l'Italia doveva fare, si sa che ora sono in Libia e dobbiamo verificare in che condizioni si trovano». Solo in un secondo tempo e se i reclami presentati presso la giustizia italiana e la Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo dovessero dimostrare che alcuni potenziali richiedenti asilo sono stati respinti dalle autorità italiane, allora forse Bruxelles si deciderà ad aprire bocca. Per ora il silenzio, che dura da un anno sui respingimenti, e poche parole anche sul Trattato di partenariato, amicizia e cooperazione tra Italia-Libia, che ha di fatto dato il via libera a questa nuova politica. «Riguardo agli accordi bilaterali, a titolo personale - ha affermato ancora il numero 2 della Malmström - considero migliore un accordo europeo a uno bilaterale, ma ci vuole chiarezza, questo accordo ha pure dimostrato la propria efficacia, è un dato di fatto che il flusso di immigrati si è bloccato». E ancora: «Ci è stato notificato un accordo in linea con la normativa Ue, anche se c'è una componente segreta che non conosciamo». Pur con questa dosi di oscurità, per la Commissione il futuro dell'intesa tra Bruxelles e Tripoli dovrebbe ricalcare una buona parte dell' accordo tra Berlusconi e Gheddafi: «Dobbiamo fare modo che ciò che è coperto da accordi bilaterali possa diventare base accordo più amplio», ha concluso Manservisi. Per procedere nei contatti, lo stesso Direttore generale si recherà in Libia prima dell'autunno, quindi toccherà alla commissaria Malmström in ottobre, il tutto in vista della stesura di un accordo generale che parli di immigrazione, ma anche controllo delle frontiere, visti e relazioni economiche. Altro appuntamento chiave il vertice Ue-Unione africana del 29 e 30 novembre a Sirte.

domenica 18 luglio 2010

«Noi, eritrei dimenticati dall’Italia»

Parla Mario Ruffin, “profugo” di Asmara, che denuncia: «L’Italia li ha abbandonati» Di MASSIMILIANO BORDIGNONMario Ruffin ha 81 anni vissuti pienamente, come si addice a uno spirito libero. Medico, abita a Treviso, ma la sua infanzia l’ha trascorsa ad Asmara, capitale e città più popolosa dell’Eritrea con il suo mezzo milione abbondante di abitanti. Un’esistenza, quella di Ruffin, divisa a metà fra lo stato africano e l’Italia, ma una consapevolezza, superiore a molti altri, di quale sia la partita della tragedia che tuttora il popolo eritreo vive sulla propria pelle. “Io, come molti italiani che ebbero la fortuna di conoscere lo sfortunato e spesso eroico popolo eritreo, sono molto emozionato per le orribili notizie sulla sorte cui sono destinati molti giovani profughi in Libia. Lo Stato dell’Eritrea è una creatura dell’Italia postrisorgimentale. Non ci può essere estraneo”, scrive al Corriere Canadese, aggiungendo: “Moltissimi di loro vengono respinti dall’Italia malgrado abbiano ottime ragioni per chiedere asilo politico”. E il Corriere ha raccolto l’appello del signor Ruffin, che ha voluto raccontare direttamente la propria esperienza africana e spiegare cosa significhe essere cresciuto in Eritrea e quale sia il legame profondo che ancora unisce tanti italiani a quelle terre. «Intanto mando un grosso saluto a tutti gli italiani e agli eritrei del Canada. Ho 81 anni, ma ne dimostro 60 e posso dire di essere un “afrikaner”. Io e tutti quelli come me ci consideriamo italiani d’Africa. I miei fratelli sono nati e cresciuti lì, mio padre ci è andato nel 1936 ed è andato via nel 1975 quando è subentrato al potere Menghistu». Perché ci ha scritto? «Mi sono mosso non appena è apparsa in Italia la notizia di questi 250 cittadini eritrei imbarcati e poi rimandati in Libia. Questi sono fuggiaschi e arrivano da una condizione dittatoriale, scappano dall’Eritrea a causa di una tensione persistente al confine con l’Etiopia. Questo obbliga la maggior parte dei giovani a venire reclutati e schierati al confine, lasciando le donne a casa. La gioventù non resta più in città e come conseguenza non si lavora più. Ma soprattutto, quando uno può, scappa. Quando vennero qui dei ciclisti eritrei io mi offrii di fare loro da medico sportivo e li seguii durante i loro allenamenti, poi all’improvvisamente due non si fecero più trovare. Qualcuno parlò di rapimento, in realtà avevamo capito che erano fuggiti perché non volevano andare sotto le armi. Pur di lasciare l’Africa attraversano il deserto, si imbarcano su navi di sfruttatori e poi succede come nell’episodio del barcone di Lampedusa, in cui oltre 70 vennero buttati a morire in mare, compresi donne e bambini. Resta il fatto che l’Italia fa di tutto per respingerli, ma ci si dimentica come la maggior parte degli immigrati arrivi in Italia dalle frontiere del nord, inoltre è statisticamente provato che etiopi ed eritrei non commettono reati, quasi non se ne sente parlare. È un popolo saggio ed eroico, che durante la guerra con l’Etiopia combattè con grandissimo valore. I guerrieri eritrei erano considerati i nostri “gurkha“ (i famosi guerrieri nepalesi al soldo dell’esercito britannico, ndr), ma purtroppo combattevano per una causa persa». Che rapporto c’era in Eritrea fra la popolazione locale e quella italiana? «In Eritrea c’era un vero e proprio apartheid da parte degli italiani. Non tanto nel XIX secolo, ma con l’avvento del fascismo io personalmente ho assistito a scene incredibili, che cancellano l’immagine dell’italiano bonaccione. Sui bus e sui tram non potevano sedersi nei posti riservati agli italiani, e c’era addirittura una seprazione con una vetrata, a scuola potevano arrivare solo alla quarta elementare per non fare concorrenza agli italiani, poi erano trattati malissimo. Bastava poco perché venissero coperti d’insulti. I miei erano antifascisti, ma io da bambino ero razzista perché lo erano tutti, e anzi, a fare il contrario si rischiava di venire denunciati, quindi anche chi non approvava quello stato di cose preferiva stare zitto. Gli eritrei erano sottopagati, vivevano in case fatiscenti, vere e proprie baracche fuori dalla città e non potevano nemmeno “mischiarsi” con gli italiani. In precedenza invece non solo questo era possibile, ma era un uso comune, tanto che diversi ufficiali del regno savoiardo venivano ritratti con la cosiddetta “madama”, ovvero una donna eritrea che veniva trattata come una moglie. Queste unioni hanno portato a moltissime nascite, che conferivano ad alcune persone di colore anche titoli nobiliari, come per un conte famoso all’epoca perché figlio di un italiano “sangue blu” e della figlia di un “ras”, che divenne facoltoso proprietario terriero e acquisì anche il titolo del genitore. Certo c’erano anche italiani democratici e liberali, ma questi erano per lo più figli di una ideologia socialista o comunque antifasista. Chi comandava assumeva invece dei toni vigliacchi e prepotenti con un popolo gentile. Anche gli italiani soffrono del famoso “mal d’Africa”? «Certamente, essere “italiano d’Africa” significa avere appunto il “mal d’Africa”, ovvero vuol dire avere una nostalgia incredibile per questo Paese e per questo popolo. Io tornai in Italia nel 1942, ma poi rientrai ad Asmara per studiare all’Università. È una popolazione che ti affascina, che pratica la religione cristiano copta. Ed è tanto più affascinante perché il patriarcato della chiesa copta d’Egitto ha tuttora dei costumi ereditati direttamente dagli antichi egizi. È una cultura quasi “fossile” e interessantissima, un popolo semita, completamente diverso dal resto dell’Africa». Lei si definisce “profugo dall’Eritrea”. Gli italiani d’Africa si sono sentiti abbandonati dal governo italiano? «Quando prima gli inglesi e poi gli americani occuparono l’Eritrea provocarono un disatro. Gli italiani, che fino a quel momento avevano spadroneggiato, furono costretti a inventarsi un mestiere e, incredibilmente, fra noi e gli eritrei si creò un clima veramente speciale. Furono anni incredibili, e anche più tardi venivo spesso fermato da gente per strada che mi chiamava, mi sorrideva e mi diceva: “Tu sei un gradito ospite” e mi offriva un caffè. Gli eritrei vogliono bene agli italiani d’Africa. Ma quando Menghistu, da buon comunista, si rivolse all’Unione Sovietica, le aziende italiane vennero sequestrate e man mano gli italiani vennero messi nelle condizioni di andare via, tanto che ormai, di quelli della vecchia generazione, non ne saranno rimasti poco più di una cinquantina, anche se poi ne sono arrivati degli altri a causa delle diverse scuole e ospedali italiani presenti». Secondo lei gli eritrei si sentono abbastanza italiani da poterli considerare come la 21ª regione italiana? «Sì. Loro lo hanno sicuramente pensato, ma nessuno li ha ascoltati, sono stati abbandonati, dimenticati, non possono nemmeno chiedere la nazionalità italiana. Odiano Giulio Andreotti, che accusano di non aver mosso un dito per “salvarli” dall’America. Nel 1978 Indro Montanelli, che quei posti li conosceva bene, già accusava che non se ne parlasse più. Io sono tornato nel 1998 e ho visto un’Asmara splendida. È considerata patrimonio dell’Unesco, è l’unica città “europea” in Africa. Ci sono tante tracce della prsenza italiana anche nei nomi dei locali, dal Bar Vittoria alla casa del Formaggio, dal Cinema Impero ai vari bar, ferrmenti e barbieri che si trovano per strada. Gli italiani non ci sono più, ma tanto di noi è rimasto lì».

Tripoli li ha liberati, ora tocca all’Italia

Stefano LibertiLiberi ma bloccati. L’odissea dei 205 cittadini eritrei detenuti per 16 giorni nel centro di detenzione di Braq e rilasciati l’altro ieri sera dalle autorità libiche sembra senza fine. Dopo una notte, quella tra giovedì e venerdì, densa di incertezze e di colpi di scena, ora i ragazzi sono di fatto incastrati nella città sahariana di Sabha, con i soldati che gli impediscono di allontanarsi dal centro abitato. Possono circolare liberamente, ma non possono uscire dalla città. È come se si trovassero in libertà vigilata. Questa situazione di stallo è il coronamento di una giornata, quella cominciata l’altroieri notte, degna di un romanzo di Kafka. Verso l’una del mattino, i 205 ragazzi sono stati caricati su alcuni pulmini in direzione di Sabha. «Ci hanno detto che ci portavano a Tripoli in aereo», racconta uno dei ragazzi al telefono. «Noi temevamo che ci volessero rimpatriare con l’inganno in Eritrea». Invece, è successa una cosa diversa: una volta raggiunta Sabha, gli autisti dei pulmini hanno scaricato gli eritrei e sono semplicemente scomparsi. Usciti da Braq dopo 16 giorni, i 205 sventurati si ritrovavano così in una città sconosciuta, e per di più senza alcun documento, dal momento che le autorità libiche non gli avevano dato quel permesso di soggiorno che era stato loro promesso nei giorni precedenti. I ragazzi sono rimasti nel più completo abbandono fino alle 4 del mattino, quando è arrivata la polizia, che li ha condotti in un centro di detenzione per passare la notte. Alle 7 gli eritrei sono stati invitati a lasciare il centro. In un turbinio di colpi di scena, alla fine è stato fornito a tutti il tanto agognato documento per circolare liberamente in Libia. Si tratta di un permesso di soggiorno con validità di tre mesi. «I funzionari dell’immigrazione ci hanno detto che con quello potevamo andare dove volevamo in Libia. Anzi, ci hanno caldamente invitato ad andare via da Sabha». Ma, una volta raggiunta la stazione degli autobus, i ragazzi hanno scoperto che nessuno li voleva portare a Tripoli. «Il vostro permesso è valido solo per questa regione», hanno detto loro gli autisti. Un pulmino che si è avventurato verso il confine della città è stato effettivamente rimandato indietro dai soldati. Una situazione assurda, complicata anche dal fatto che era venerdì, e quindi giornata festiva in Libia. Nessuno era in grado di farsi carico dei 205 ragazzi, che si sono trovati a vagare per la città e ad ingegnarsi per trovare un luogo dove trascorrere la notte. Al di là dell’odissea del loro rilascio, rimangono comunque diversi punti interrogativi sulla sorte dei 205 ex reclusi di Braq, e degli altri cittadini eritrei liberati contestualmente dagli altri centri di detenzione - circa 400 persone in tutto, secondo stime delle autorità di Tripoli confermate dalla comunità eritrea. Il loro permesso è valido solo tre mesi. Allo scadere del documento, saranno costretti a chiedere un visto, per avere il quale dovranno prima recarsi all’ambasciata eritrea e farsi rilasciare un passaporto. Un’eventualità impossibile, dal momento che gli eritrei sono richiedenti asilo in fuga dal proprio paese, dove l’emigrazione è considerata un crimine di stato e punita severamente. Il futuro prossimo sembra quindi destinato ad essere un ritorno alla casella di partenza per gli eritrei di Libia: tutto lascia pensare che, allo scadere dei tre mesi, piomberanno nuovamente nella clandestinità e saranno costretti a nascondersi per fuggire alle retate e non finire nuovamente nei centri di detenzione. A meno che qualche stato terzo non si faccia carico di loro e li accolga. La settimana scorsa, il governo italiano si è detto disposto ad accettare una parte dei richiedenti asilo, per bocca del sottosegretario agli esteri Stefania Craxi. Poi la questione è caduta nel dimenticatoio. Loro, gli ex reclusi, ripetono quello che hanno sempre detto dall’inizio della loro odissea: «Non vogliamo rimanere in Libia. Vogliamo andare in un paese che ci garantisca la protezione internazionale. Qui non ci sentiamo tutelati». Quanto sta accadendo in queste ore a Sabha sembra l’ennesima conferma che i loro timori sono tutt’altro che infondati.

Libia, "liberati" 205 eritrei: nel deserto senza documenti e soldi

Incarcerati come immigrati clandestini, per il rilascio hanno dovuto pagare 800 dollari ciascuno. Per loro unica prospettiva il reimpatrio con un destino incerto. Una nuova emergenza umanitaria TRIPOLI - Le autorità libiche, stamattina intorno a mezzogiorno, hanno rilasciato 205 eritrei, rinchiusi nel carcere di Al Biraq come immigrati clandestini che avevano tentato di arrivare in Italia, chiedendo loro 800 dollari ciascuno. Di altri detenuti, che facevano parte di un gruppo di 250 persone, per le quali era cominciata una campagna di stampa cominciata dall'Unità, non si sa più nulla. Le persone liberate sono state accompagnate a Sebah, 75 chilometri dal carcere, in pieno deserto, senza soldi, senza documenti, con solo un permesso di permanenza nel territorio libico valido 3 mesi, allo scadere del quale potranno andare a chiedere il passaporto alla loro ambasciata. Un modo come un altro per essere di nuovo rispediti dal luogo dove erano disperatamente fuggiti e poi miracolosamente sopravvissuti dopo viaggi allucinanti di giorni assiepati in container, fino a pochi chilometri dall'Europa. Il loro destino, dunque, è e rimane quello di detenuti "a cielo aperto", non più stipati nelle celle sotterranee, 2 metri per 2 con 50 gradi, senza alcun diritto da far valere, se non quello di tornare nel paese d'origine, dove li aspetta come minimo un'altra galera, se non la morte. Il governo italiano, per voce del ministro Frattini, aveva "garantito il massimo interessamento" per i cittadini eritrei arrestati in Libia. Un intervento che sta mostrando oggi tutta la sua debolezza e inconsistenza, tanto più - come racconta Mussie Zerai, responsabile della Ong Habesha - "che la polizia libica continua indiscriminatamente a fare veri e propri rastrellamenti in tutto il paese e a Tripoli, in particolare, dove proprio stamattina sono stati catturati un altro centinaio di profughi eritrei e somali, in fuga dai loro paesi. Anche il loro destino sarà quello di essere presi in consegna da poliziotti, veri o falsi, che si arricchiscono chiedendo denaro in cambio di una libertà che non arriva mai". Dunque, una nuova emergenza umanitaria a pochi chilometri dai nostri confini, che riguarda persone alle quali non viene neanche dato il tempo di chiedere l'asilo politico in Italia, un diritto espressamente previsto dalla nostra Costituzione. (16 luglio 2010)

Trappola per i profughi eritrei

di Umberto De Giovannangeli Non sanno dove andare. Non sanno come andare. Senza documenti. Senza permessi. Senza soldi. Senza un mezzo di trasporto. Nel deserto. A mille chilometri da Tripoli. Se essere liberi significa passare da un lager, quello di Brak, ad un Centro di detenzione, quello di Sabha; se essere liberi significa non essere più picchiati ogni due ore ma «solo» obbligati a firmare un documento in cui si ammette di essere colpevoli del reato di immigrazione clandestina... Se essere «liberi» significa questo, allora gli oltre 200 eritrei segregati per giorni a Brak, nel sud della Libia, liberi lo sono. Liberi di essere riarrestati per mancanza dei permessi necessari per muoversi in Libia; liberi di finire dentro un’altra volta in una delle retate organizzate dalle forze di polizia e dall’esercito del Colonnello Gheddafi contro i «nemici della sicurezza nazionale»: eritrei, somali, dissidenti... Liberi di restare ostaggi in un Paese che non riconosce il diritto di asilo. SENZA META Di certo, gli oltre 200 eritrei vittime di questa allucinante vicenda, sono stati fatti uscire dal carcere di Brak, per essere portati in un altro centro di detenzione: quello di Sabha. Mussie Zerai, il sacerdote eritreo responsabile responsabile dell’ong Habesha, (un’associazione che si occupa di accoglienza dei migranti africani in Italia), ha avuto modo di parlare, ieri mattina, con alcuni di loro. La situazione resta allarmante: non sono in possesso di alcun documento per potersi muovere liberamente né per lavorare. «Così non possiamo andare da nessuna parte, al primo posto di blocco veniamo fermati e arrestati di nuovo», afferma uno dei 200 «liberati». Senza documenti né permessi, dovrebbero raggiungere Tripoli, attraversando aree desertiche, superando posti di blocco, cercando una improbabile via di fuga. Liberi, con zero garanzie. Nessuno - funzionari di agenzie Onu, funzionari di ambasciate di Paesi terzi - ha potuto avvicinarli, per sincerarsi delle loro condizioni, per registrare le loro richieste. Per esigere dalle autorità libiche notizie dei 5 «desaparecidos». I CINQUE SCOMPARSI Si tratta di cinque uomini che facevano parte del gruppo degli eritrei deportati a fine giugno dal Centro di detenzione di Misratah a quello di Brak, di cui non si ha più notizia. Non è la prima volta che accade. La prassi si ripete: i servizi di intelligence libici individuano nel gruppo incarcerato i potenziali, o già tali, leader. A quel punto queste persone vengono portate vie e rinchiuse, nel migliore dei casi, in carceri di massima sicurezza, fagocitati in un buco nero da cui non si esce più. Disperderli per depotenziare l’impatto mediatico. Disperderli per avvolgerli in una impenetrabile cortina del silenzio. È quello che, a quanto risulta a l’Unità, sta avvenendo in queste ore. Sia il centro di detenzione di Misratah – dove gli eritrei erano stati inizialmente rinchiusi - che quello di Sabha, le cui condizioni sono notoriamente di gran lunga peggiori, sono destinati - rileva Amnesty International - ai «migranti irregolari», sebbene le autorità libiche facciano poco o nulla per distinguere tra richiedenti asilo, rifugiati e migranti. Il centro di detenzione di Misratah era seguito fino a poco tempo fa dall’Unhcr, l’Alto Commissariato per i rifugiati dell’Onu. Ma dall’8 giugno scorso le autorità libiche hanno chiuso la sede dell’Unhcr ed espulso il personale. Perciò, da allora, tutti i profughi detenuti nel centro libico sono abbandonati a se stessi. Da segregati come da «liberi», la richiesta avanzata alle istituzioni nazionali e internazionali dai disperati di Brak è sempre la stessa: vedere loro riconosciuto il diritto d’asilo politico e la libertà. C’è un precedente inquietante, che investe direttamente l’Italia. Un precedente che dà corpo al terrore che oggi attanaglia gli eritrei «liberati»: il terrore del rimpatrio. «Nel 2004 - ricorda il fondatore di Fortress Europe, Gabriel del Grande - dalla Libia vennero rimpatriati più di 100 eritrei, su voli pagati dall’Italia. Che fine hanno fatto? Condannati ai lavori forzati e poi di nuovo nei campi di addestramento militare». REINSEDIAMENTO «In queste settimane ho avuto modo di parlare al telefono più volte con diversi eritrei detenuti a Mistratah e a Brak. Oltre a raccontarmi delle loro atroci sofferenze, sempre, sempre, ripetevano lo stesso appello: chiediamo di essere trasferiti in un Paese terzo, dove venga riconosciuto il nostro diritto all’asilo. Questa pratica ha un nome: reinsediamento. È questa l’unica soluzione», ribadisce a l’Unità Mussie Zerai. Una soluzione che chiama in causa il Governo italiano. Una soluzione invocata a più riprese, anche da queste pagine, da Christopher Hein, direttore del Cir (Consiglio italiano per i rifugiati). Reinsediati. Solo così avrebbe senso parlare di un epilogo felice di questa tragica odissea. 17 luglio 2010

mercoledì 14 luglio 2010

L'appello degli africanisti per gli eritrei «detenuti» in Libia

Lettera aperta degli Africanisti italiani per la tutela dei richiedenti asilo Ai Ministri Roberto Maroni e Franco Frattini Egregi Ministri, l’Africa è il nostro campo di ricerca e di docenza. Ne studiamo la storia, le culture, la politica, i problemi di sviluppo da diverse prospettive disciplinari e frequentiamo da anni le sue diverse popolazioni con le quali condividiamo sentimenti di reciproco rispetto e amicizia, un legame emotivo e di coinvolgimento personale che travalica gli ambiti puramente scientifici. Abbiamo letto dell’intervento italiano per sottrarre alla detenzione in Libia, in campi dalle condizioni invivibili, 245 profughi eritrei. Riteniamo che questo intervento non basti e soprattutto non garantisca il rispetto dei diritti di quelle persone, perché si tratta di persone la cui unica colpa è di aver cercato con tutti i mezzi un futuro migliore per se stessi e per i propri cari. A tutti i duecento quaranta cinque, così come a tutti i profughi di qualsiasi provenienza, dovrebbe essere riconosciuto il diritto di vedere presa in considerazione la propria eleggibilità allo status di rifugiati. Ci è stato più volte detto che il controllo dei flussi dei disperati, uomini e donne, molti adolescenti e bambini, che rischiano la vita e molto spesso la perdono nell’attraversare il deserto, compete alle autorità libiche. Tuttavia sappiamo anche che la Libia non ha sottoscritto la Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati e di recente ha persino chiuso l’ufficio locale dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, che, sia pure fra mille difficoltà, cercava di garantire la possibilità che le domande d’accoglienza dei richiedenti asilo potessero essere vagliate e prese in debita considerazione. Anche se l’agenzia di Tripoli ha ripreso parzialmente le attività a fine giugno, l’ordine d’espulsione non è ancora stato, ad oggi, formalmente revocato. Il dramma di questo gruppo di eritrei abbandonati in un limbo caratterizzato dalla più totale e indiscriminata negazione dei diritti elementari della persona è ora sotto gli occhi di tutti, perché finalmente ne hanno parlato anche i nostri giornali e si sono mobilitate autorevoli organizzazioni umanitarie internazionali. L'Italia tende a rifiutare le critiche, ma non può non riconoscere quanto e come la responsabilità di questa drammatica situazione sia l’inevitabile conseguenza della politica dei respingimenti collettivi, in palese violazione degli obblighi imposti dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e dei trattati sui diritti dell’uomo che l’Italia ha sottoscritti, nonché del divieto di refoulement previsto dalla Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato e dal diritto internazionale consuetudinario, che nel nostro ordinamento riveste rango costituzionale. L’esodo di tanti da Paesi dell’Africa sub-sahariana ha motivazioni e spinte complesse che non possiamo qui analizzare e che certamente chiamano in causa la responsabilità delle politiche di Libia, Eritrea e degli altri paesi africani, così come dell’Unione Africana. Rivolgendoci ai Ministri del Governo italiano ci interessa richiamare la responsabilità morale e giuridica del modus operandi del nostro Paese e dell’Unione Europea: impedire a profughi e rifugiati di raggiungere il territorio italiano ed europeo per chiedere ed eventualmente ottenere asilo, significa accettare che esseri umani fra i più vulnerabili in numeri crescenti vengano internati in veri e propri centri di detenzione in cui ogni abuso è possibile per essere successivamente deportati verso paesi di origine senza il loro assenso, o abbandonati a morte certa nel deserto del Sahara. Questa politica illegale e disumana, finanziata col nostro denaro, non riguarda certo solo eritrei, ma di questi abbiamo saputo con maggiori dettagli, perché qui in Italia abitano e lavorano molti loro famigliari o amici. Dovremmo ricordare che l'Eritrea è stata a lungo legata all’Italia, certo in un rapporto coloniale, ma nondimeno ha mantenuto col nostro paese profondi e incancellabili legami culturali, affettivi e umani che non è possibile ignorare. L'Eritrea ha fornito all'Italia intere generazioni di ascari che hanno combattuto disciplinatamente e coraggiosamente sotto la sua bandiera, anche nelle stesse terre libiche dove ora i loro nipoti sono sottoposti a un trattamento disumano nel silenzio se non col consenso dello stesso Governo italiano. Non si tratta tanto di futili questioni di natura sentimentale, ma sono un lascito della storia che lega indissolubilmente i destini dei due Paesi e delle loro popolazioni. Infine, va ricordato che l'Italia ha una profonda responsabilità etica e giuridica nei confronti di questi profughi, respinti in mare proprio mentre cercavano di raggiungere le nostre sponde. Vi chiediamo in particolare di attivarvi affinché: a) gli accordi sul pattugliamento (e il flusso di soldi e materiali che li accompagna) vengano vincolati al rispetto degli standard internazionali dei diritti dell'uomo e vengano sospesi immediatamente i rimpatri verso la Libia; b) la permanenza di tali accordi venga subordinata all'accettazione ufficiale da parte del Governo libico del ritorno del personale dell'UNHCR ed alla ripresa delle attività dell’agenzia a pieno regime; c) i funzionari dell'UNHCR possano ricevere le domande di asilo di queste persone ed eventualmente accettare che queste persone vengano in Italia o siano accolte in altri paesi in cui la loro vita non sia in pericolo. Distinti saluti. I promotori della Petizione: Anna Maria Gentili Alessandro Triulzi Uoldelul Chelati Dirar 1.9/7/2010 Anna Maria Gentili 2.9/7/2010 Alessandro Triulzi 3.9/7/2010 Uoldelul Chelati Dirar 4.9/7/2010 Cristiana Fiamingo 5.9/7/2010 Elisa Greco 6.9/7/2010 Stefano Boni 7.9/7/2010 Sebastiana Etzo 8.9/7/2010 Chiara Brambilla 9.9/7/2010 Claudio Cernesi 10.9/7/2010 Pierluigi Valsecchi 11.9/7/2010 Itala Vivan 12.9/7/2010 Bruna Ingrao 13.9/7/2010 Silvia d'Angelo 14.9/7/2010 Bianca Carcangiu 15.9/7/2010 Barbara Bompani 16.9/7/2010 Karin Pallaver 17.9/7/2010 Valeria Saggiomo 18.10/7/2010 Carlo Carbone 19.10/7/2010 Beatrice Nicolini 20.10/7/2010 Vittorio Morabito 21.10/7/2010 Flavien Tchamdjeu 22.10/7/2010 Gianfrancesco Lusini 23.10/7/2010 Clelia Bartoli 24.10/7/2010 Gamba Stefania 25.10/7/2010 Maria Rosa Piranio 26.10/7/2010 Roberto Gaudioso 27.10/7/2010 Lucia Borneo 28.10/7/2010 Arrigo Pallotti 29.10/7/2010 Daniela Merolla 30.10/7/2010 Silvia Dona 31.10/7/2010 Francesco Correale 32.10/7/2010 Cesira Filesi 33.10/7/2010 Anna Baldinetti 34.10/7/2010 Marta Atzori 35.10/7/2010 Romano Orru' 36.10/7/2010 Serena Talento 37.10/7/2010 Giovanni Dore 38.10/7/2010 Emanuele Fantini 39.10/7/2010 Elena Garcea 40.10/7/2010 Giulia Casentini 41.10/7/2010 Giancarlo Pichillo 42.10/7/2010 Giulia Musella 43.10/7/2010 Marina Ruggiero 44.10/7/2010 Teresa Frasca 45.10/7/2010 Alessio Fabbiano 46.10/7/2010 Graziella Acquaviva 47.10/7/2010 Laura Guazzone 48.10/7/2010 Graziano Savà 49.10/7/2010 Antonio M. Morone 50.10/7/2010 M. Cristina Ercolessi 51.11/7/2010 Giovanni Olibet 52.11/7/2010 Daniela Console 53.11/7/2010 Alessia De Marco 54.11/7/2010 Sara Centrella 55.11/7/2010 Marcello Zoleo 56.11/7/2010 Simona Saviano 57.11/7/2010 Claudia Popoli 58.11/7/2010 Marco Manna 59.11/7/2010 Emiliana Filosa 60.11/7/2010 Silvana Palma 61.11/7/2010 Barbara Hittler 62.11/7/2010 Alessandro Volterra 63.11/7/2010 Francesco.Di Gennaro 64.11/7/2010 Francesca Di Pasquale 65.11/7/2010 Ilaria Micheli 66.11/7/2010 Luca Puddu 67.11/7/2010 Patrizia Palmieri 68.11/7/2010 Rosa Di Costanzo 69.11/7/2010 Umberto Pellecchia 70.11/7/2010 Anna Pisani 71.11/7/2010 Roberto Pinci 72.11/7/2010 Marcella Esposito 73.11/7/2010 Flavia Prota 74.11/7/2010 Francesco Franco 75.11/7/2010 Barbara Favilla 76.11/7/2010 Andrea Tagliabue 77.11/7/2010 Jane Wilkinson 78.11/7/2010 Marinella Sorino 79.11/7/2010 Angelo Ferrillo 80.11/7/2010 Francesca Carlucci 81.12/7/2010. Anna Coppola 82.12/7/2010 . Margherita Dalla Casa 83. 12/7/2010 . Chiara Braschi 84. 12/7/2010 . Cecilia Bellettato 85. 12/7/2010 . Alessia Bartolomei 86. 12/7/2010 . Diego Alessi 87. 12/7/2010 . Antonella Brita 88. 12/7/2010 . Alessandro Jedlowski 89. 12/7/2010 . Isabella Soi 90. 12/7/2010 . Antonella Martellucci 91. 12/7/2010 . Flavia Aiello 92. 12/7/2010 . Anna Maria Medici 93. 12/7/2010 . Davide Davoli 94. 12/7/2010 . Antonino Adamo 95. 12/7/2010 . Luca Jourdan 96. 12/7/2010 . Selena Nobile 97. 12/7/2010 . Filomena Rusciano 98. 12/7/2010 . Marco Aime 99. 11/7/2010 . Pierpaolo Faggi 100.11/7/2010 . Lidia Procesi 101.11/7/2010 . Isabella Rosoni 102.11/7/2010 . Ernestina Scalfari 13 luglio 2010

lunedì 12 luglio 2010

L’Italia deve accogliere i 205 eritrei deportati

Alberto D'Argenzio Juan Fernando Lopez Aguilar conosce bene i problemi legati all’immigrazione. È stato ministro della giustizia in Spagna, ora è Presidente della "Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni" del Parlamento europeo, quella incaricata di vigilare sul rispetto dei diritti dei migranti e dei richiedenti asilo. Ed è «preoccupato» per la sorte dei 205 eritrei deportati e rinchiusi da dieci giorni a Braq, frutto amaro degli accordi tra Italia e Libia. Che responsabilità hanno l’Europa e l’Italia per quello che sta succedendo agli eritrei deportati? Bisogna capire in primo luogo che la politica di immigrazione è diventata europea solamente con il Trattato di Lisbona. Fino a ieri era di esclusiva competenza nazionale e tutto ciò che è stato fatto in Europa negli ultimi 10 anni è stata solo un’anticipazione di una politica tutta da costruire. Ma ciò che è stato fatto a livello embrionale è assolutamente insoddisfacente. Quindi, ed è il secondo punto, questa vicenda si spiega solo nella cornice dell’accordo bilaterale Italia-Libia, delle politiche del governo Berlusconi, che sono state criticate con forza tanto in Italia quanto fuori. Quindi non hanno senso le accuse del governo italiano all’Europa? Come dicevo, la Ue ha iniziato ad avere voce in capitolo da poco, ed è vero che bisogna fare molto di più e meglio. Ma non dobbiamo dimenticare che questa vicenda mette in luce un caso di lesione del diritto dei richiedenti asilo in un paese, l’Italia, che non solo è membro dell’Ue ma anche uno dei firmatari della Convenzione dell’Onu sui rifugiati. È una questione seria, che ci preoccupa. Il nostro gruppo (i Socialisti e democratici, ndr) ha chiesto per la settimana prossima un’audizione speciale su questo caso della commissaria agli interni Cecilia Malmström. A questo proposito, come mai da un anno e mezzo la Commissione europea tace sui respingimenti in mare? Non posso rispondere per loro. Tocca a loro chiarire e chiarirsi, anche per questo spero che Malmström venga ascoltata quanto prima. Ma il governo italiano deve essere consapevole che tutto ciò che riguarda i diritti dei richiedenti asilo è una questione di estrema importanza e che di questo dovrà rispondere di fronte alle istituzioni ed all’opinione pubblica europea. L’Europa dovrebbe riprendere gli eritrei respinti dall’Italia e quelli deportati da Gheddafi? A mio avviso questa soluzione non solo è fattibile, ma consigliabile e dovrebbe essere la prassi per il futuro. L’Europa deve avere una politica comune e sostenerla con i mezzi necessari, ma ciò non vuol dire che dobbiamo convalidare tutte le prassi discutibili portate avanti dagli Stati membri, dobbiamo invece rispettare i Trattati internazionali in materia. È un fatto evidente che i comportamenti degli stati membri sono eterogenei, ci sono governi con filosofie diverse e ciò non può continuare così, dobbiamo costruire un livello europeo di protezione dei diritti ed impegno comune, di ciò dobbiamo parlare con Malmström. In questo caso l’anomalia nasce da un accordo internazionale, quello tra Italia e Libia, che solleva enormi dubbi. L’Accordo Italia-Libia è stato censurato per la sua segretezza, un fatto stupefacente anche per gli esperti di diritto internazionale. Per contrastare questa situazione va costruita una politica europea rispettosa dei diritti. Quando ero ministro in Spagna ci lamentavamo che dalla Ue non arrivavano risposte ai nostri problemi. Ma ora c’è Lisbona e possiamo costruire una risposta europea, che però deve essere in sintonia con il meglio della nostra storia, con il rispetto dei diritti umani. Ma non c’è il rischio che l’Europa ricalchi l’accordo Italia-Libia invece che sostenere il rispetto dei diritti? Il rischio c’è, bisogna vigilare. Il caso degli eritrei è importante anche per questo.

Diritto d’asilo in frantumi. Gli eritrei ancora nelle gabbie libiche

di Fulvio Vassallo Paleologo Un silenzio plumbeo continua a gravare sulla sorte dei circa duecento eritrei deportati da Misurata a Brak, in pieno deserto, per avere rifiutato di firmare, con il pretesto di una offerta di regolarizzazione per lavoro, dei moduli di identificazione predisposti dalla loro ambasciata. Adesso anche gli ultimi telefoni tacciono, e probabilmente le guardie libiche, che finora hanno fornito satellitari e vie di fuga, a pagamento naturalmente, hanno ricevuto nuovi ordini, di impedire qualsiasi comunicazione con l’esterno. Intanto sembra ancora in corso la raccolta delle adesioni all’”accordo di integrazione” che dovrebbe permettere agli eritrei di uscire dal carcere militare nel quale sono rinchiusi per essere trasferiti in un comune libico nel quale sarebbero obbligati a svolgere “lavori socialmente utili” sotto il controllo della locale prefettura. Un accordo truffa che passa attraverso la rinuncia alla richiesta di asilo, che consentirà la identificazione dei profughi da parte dell’ambasciata eritrea, e che permetterà a Gheddafi e a Berlusconi di continuare a dire che in Libia non esistono richiedenti asilo, e che dunque le pratiche di respingimento collettivo, e quindi di detenzione, si rivolgono soltanto verso “migranti illegali”, che vanno puniti per avere fatto ingresso irregolare in Libia e deportati nei paesi di origine. Anche se si tratta di somali, sudanesi, nigerini, togolesi, nigeriani o eritrei che potrebbero chiedere asilo o un altro status di protezione internazionale. Anche se le punizioni con i bastoni o con i manganelli elettrici violano i più elementari diritti dell’uomo. Tutti assimilati dunque alla “comoda” (per governi e polizie) categoria di migrante economico (da sfruttare e) da respingere, quando la sua presenza non conviene più, una logica che l’Europa ha insegnato agli stati africani, prima paesi di transito, adesso come la Libia, anche paesi di destinazione. E da giorni circola sui giornali italiani, persino sul Giornale di Sicilia di Palermo, la falsa notizia della “soluzione del problema”, con l’annuncio del rilascio ai profughi eritrei di permessi di soggiorno per lavoro. Un annuncio che non ha significato la libertà per nessuno. Una realtà di comodo nella quale tutti i principali attori di questa vicenda recitano le parti a memoria, con un alternarsi sistematico di abusi e violenze ai limiti ( e oltre) della tortura, seguiti poi da gesti di apparente apertura, come le “visite guidate” in alcuni centri di detenzione che le autorità libiche concedono periodicamente per tentare di dimostrare il pieno rispetto dei diritti umani dei detenuti. Secondo le ultime notizie di fonte libica, gli eritrei sarebbero “ospiti temporanei” della Grande Jamahiria, trattati con tutti i riguardi, al punto che persino le organizzazioni umanitarie consorziate con l’IOPCR, ente libico che dovrebbe assistere i migranti, come l’OIM, la Mezza Luna Rossa, e fino a poco tempo fa anche l’UNHCR, Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, li possono visitare, garantendo in questo modo che non fossero esposti ad abusi. Adesso, dopo l’ennesima visita guidata di qualche ora, avvenuta forse in una giornata di domenica, ripeteranno la stessa litania, buona solo per i tanti che si sentono con la coscienza a posto solo perché queste tragedie avvengono in un paese africano, ormai lontano dalle pulsioni dell’opinione pubblica e senza scomodi testimoni. Addirittura, dopo il clamore suscitato dalla vicenda, secondo una ANSA dell’11 luglio, che cita come fonte l’agenzia di stampa libica Jana, Gheddafi, avrebbe ordinato venerdì sera a Tripoli, un’inchiesta sulla situazione degli emigrati eritrei che si trovano in Libia. Come riferisce l’ANSA, “in un recente comunicato del Ministero degli esteri libico, anch’esso apparso sulla Jana, la Libia ha smentito con vigore le informazioni riportate dalla stampa straniera sul trattamento degli emigrati eritrei rinchiusi nei centri di detenzione. Questi eritrei, riporta il comunicato del Ministero degli Esteri libico, sono 400 e soggiornano nei campi di detenzione per un periodo che va dai 6 mesi ai 2 anni durante i quali sono trattati, sempre secondo la nota, «in un’ottica umanitaria, come ospiti in attesa di ritornare nel loro Paese d’origine». Ospiti che quando saranno ricondotti nel loro paese di origine, magari dopo essere stati costretti a firmare richieste di rimpatrio, o essere stati per qualche tempo comuni migranti economici, potranno essere sottoposti ad altre violenze e torture. Secondo la Reuters, che cita la stessa agenzia di stampa libica Jana, "ci sono circa 400 migranti illegali dell’Eritrea detenuti in centri in Libia e vengono trattati come ospiti temporanei". "Le autorità libiche hanno aperto i centri di detenzione agli organismi umanitari e ai rappresentanti diplomatici perché testimonino le condizioni e il trattamento dei migranti", ha detto l’agenzia. "E’ una cosa che di per sé smentisce le accuse di maltrattamento". Insomma l’opinione pubblica italiana può dormire sonni tranquilli, il sonno dell’ignoranza e della vergogna, i “clandestini” dalla Libia non arriveranno più ed è bene che vadano isolati quei pochi mestatori che si ostinano a chiedere il riconoscimento del diritto di asilo dei profughi eritrei detenuti in quel paese ed il loro trasferimento in un paese firmatario della Convenzione di Ginevra, in grado di garantire effettivamente la protezione internazionale. Anche se in questo senso si è espresso anche ECRE che costituisce il massimo organismo a livello comunitario per la difesa dei rifugiati. E alcuni deputati europei hanno richiesto di convocare i rappresentanti della Libia e dell’Italia davanti alla Commissione per i diritti dell’Uomo del Parlamento Europeo, per chiarire la vicenda degli eritrei deportati da Misurata a Brak. Magari, tra qualche giorno, qualcuno ci verrà a raccontare che a Brak gli eritrei sono alloggiati in un albergo a cinque stelle e che questa emergenza se la sono inventata i giornalisti e gli antirazzisti italiani.. Alcuni dati certi smentiscono le informazioni più ottimistiche di fonte libica, date per buone, oltre che dalla maggior parte della stampa italiana, dai nostri esponenti di governo, preoccupati soltanto di non guastare il clima di collaborazione instauratosi con Gheddafi dopo il Trattato di amicizia del 2008 , un accordo internazionale che costerà agli italiani cinque miliardi di euro in venti anni. n Libia le retate, gli arresti sommari e le deportazioni continuano fino a questi giorni e le conferme non vengono solo dai rapporti di Amnesty International (2010), e di Human Rights Watch (2009) ma dal governo libico e dalle missioni dell’Agenzia FRONTEX e del Parlamento Europeo. Innanzitutto è provato che la Libia pratica da anni e su vasta scala arresti e deportazioni di massa, anche se le missioni internazionali non si accorgono sempre che tra i cd. migranti economici “illegali” che vengono deportati ve ne sono a migliaia che potrebbero chiedere asilo o protezione internazionale. Per confermare questo dato basta leggere il Report della Missione tecnica inviata in Libia dal 28 maggio al 5 giugno del 2007 dall’agenzia comunitaria per il controllo delle frontiere esterne FRONTEX, secondo la quale nel solo 2006 erano stati 32164 i migranti illegali “detained” in Libia e 53842 quelli “deported” verso i paesi di origine. E sono noti i dati contenuti nelle relazioni per il 2005 ed il 2006 della Corte dei Conti che ha documentato il finanziamento da parte italiana di oltre 5300 rimpatri dalla Libia verso i paesi di origine. Altro che ospiti! E sono tutte circostanze ben note al nostro governo, anche se negli ultimi anni si è tolto alla Corte dei Conti il potere di indagare su queste operazioni di vera e propria deportazione. Nel settembre del 2009, Human Rights Watch ha pubblicato un rapporto, "Scacciati e schiacciati", che documentava la politica di interdizione dell’Italia e il rinvio sommario di migranti e richiedenti asilo in Libia. Il rapporto documentava inoltre i frequenti abusi subiti dai migranti durante la detenzione in Libia, così come la pratica generale di detenere i migranti “irregolari”per periodi indefiniti. E gli stessi abusi sono confermati da un rapporto ancora più recente di Amnesty International. Secondo Bill Frelick, direttore del Refugee Program di Human Rights Watch Il governo italiano “dovrebbe offrire immediatamente accoglienza ad almeno 11 Eritrei che aveva respinto, in precedenza, in Libia, dove ora sono detenuti con la minaccia di deportazione in Eritrea”. "L’Italia non ha mai dato a questi individui la possibilità di chiedere asilo, e adesso essi corrono il grave rischio di ritrovarsi scaricati nel deserto o deportati in Eritrea," ha dichiarato Frelick, "L’Italia è responsabile per le persone che ha respinto in Libia, un Paese senza legge sull’asilo che li ha brutalizzati. È l’Italia che li ha esposti a questo pericolo, ed è l’Italia che da tale condizione dovrebbe toglierli." Alcuni di loro sono stati in grado di contattare Human Rights Watch. Hanno dichiarato il timore che riempiendo con le proprie generalità questi moduli forniti dall’ambasciata Eritrea, metteranno in pericolo le proprie famiglie in Eritrea e forse spianeranno la strada per la propria deportazione. "Il governo eritreo considera coloro che scappano dal Paese come dei traditori" ha detto Frelick, "Che la Libia richieda loro di fornire al governo da cui sono scappati le proprie generalità, dimostra che sono ancora in pericolo in Libia." Secondo i media italiani, 140 dei detenuti eritrei rinchiusi a Misurata hanno firmato i moduli. Alcuni di loro hanno riferito a Human Rights Watch che quanti hanno firmato lo hanno fatto sotto costrizione o per inganno, e che hanno paura delle conseguenze per le proprie famiglie ancora in Eritrea. Sempre secondo HRW, le autorità libiche stanno usando mezzi durissimi sui detenuti per costringerli a firmare i moduli. I detenuti hanno informato Human Rights Watch che 10 dei 205 Eritrei che erano stati trasferiti dal centro di detenzione di Misurata a quello di Brak ( Al Biraq), erano stati portati all’aperto e picchiati. Il 7 luglio, un gruppo rimasto a Misurata, composto da 31 uomini, 13 donne e 7 bambini, ha detto di essere stato picchiato dopo aver rifiutato nuovamente di riempire i moduli. Il ministro Vito in un recente dibattito parlamentare, pochi giorni fa alla Camera, ha invece riferito come il 24 giugno scorso, l’assistente dell’Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati abbia incontrato a Tripoli “il Ministro degli esteri libico ed ha espresso la gratitudine dell’Alto commissariato per la sensibilizzazione svolta dal Ministro Frattini nei confronti delle autorità libiche”. Con quali risultati si è già visto e, purtroppo, lo si vedrà ancora in futuro. Lo stesso ministro ha poi comunicato che “l’Alto commissariato potrà proseguire ufficiosamente nell’assistenza dei rifugiati in Libia e, contestualmente, avvierà un negoziato per un memorandum di intesa, che costituisca il quadro giuridico per l’operatività in Libia in forma ufficiale”. Secondo Vito, in merito, poi, al trasferimento di immigrati irregolari eritrei dal centro di Misratah a quello di Sebha, il Ministero degli affari esteri fa sapere che, secondo la nostra ambasciata, vi sarebbero stati tumulti nel centro di Misratah dovuti, verosimilmente, alla distribuzione, da parte delle autorità libiche, di formulari per selezionare personale da adibire a lavori socialmente utili. Gli interessati, però, avrebbero scambiato tali formulari per documenti finalizzati al rimpatrio in Eritrea”. Sempre secondo Vito, “Il nostro ambasciatore ha incontrato il Viceministro degli esteri libico, il quale ha confermato che le autorità libiche stanno completando la raccolta dei dati personali degli immigrati eritrei, per poi affidarli a diverse shabìe (una sorta di prefetture) ed avviarli a lavori socialmente utili”. Dunque anche per l’Italia, come per Gheddafi, i migranti eritrei non sono richiedenti asilo, ma soltanto dei migranti economici ai quali, se va bene, può essere concesso al massimo un permesso di soggiorno per lavoro. Esattamente quello che da settimane con violenze ed abusi indicibili i libici stanno cercando di estorcere agli eritrei detenuti a Misurata ed adesso trasferiti per punizione a Brak. Il rappresentante del governo dà poi notizia del negoziato in corso tra Libia ed Unione europea per un accordo quadro che comprende “un ampio capitolo migratorio”, aggiungendo che “la Commissione europea è impegnata, conformemente al mandato del Consiglio, ad ottenere dalle autorità libiche anche garanzie sulla tutela delle persone che necessitino di protezione internazionale”. Peccato che nessuno ricordi in Italia la Risoluzione del Parlamento Europeo del 17 giugno scorso, che di fatto impone una sospensione dei negoziati fino a quando la Libia non garantirà il pieno rispetto dei diritti umani. E invece il governo italiano ha approvato il Decreto legge 6 luglio 2010 , n. 102 che proroga degli interventi di cooperazione allo sviluppo e a sostegno dei processi di pace, di stabilizzazione e delle missioni internazionali delle Forze armate e di polizia. All’art. 4 (Missioni internazionali delle Forze armate e di polizia) si autorizza “ la spesa di euro 2.023.691 per la proroga della partecipazione di personale del Corpo della guardia di finanza alla missione in Libia, di cui all’articolo 5, comma 22, del decreto-legge 1° gennaio 2010, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 5 marzo 2010, n. 30, e per garantire la manutenzione ordinaria e l’efficienza delle unita’ navali cedute dal Governo italiano al Governo libico, in esecuzione degli accordi di cooperazione sottoscritti tra la Repubblica italiana e la Grande Giamahiria araba libica popolare socialista per fronteggiare il fenomeno dell’immigrazione clandestina e della tratta degli esseri umani”. Questa è la risposta, con i fatti, che il governo italiano fornisce oggi a quanti hanno criticato, anche a livello internazionale gli accordi di respingimento collettivo avviati nel 2007 e perfezionati nel febbraio del 2009 dal ministro Maroni in missione a Tripoli. Una risposta che produrrà altri respingimenti, altri arresti, ed altre deportazioni come quella, violenta ed ingiustificata, subita dagli eritrei di Misurata. Nel 2009 l’Alto Commissario Onu per i diritti umani, Navi Pillay denunciava le politiche nei confronti degli immigrati che "con una chiara violazione del diritto internazionale, vengono abbandonati e respinti senza un’adeguata verifica del fatto che stiano o meno fuggendo da persecuzioni". Il 15 settembre 2009 la Pillay citava la "tragica evenienza" del gommone di eritrei rimasto senza soccorsi tra la Libia, Malta e l’Italia nel mese di agosto dello stesso anno. E osservava come "la pratica della detenzione dei migranti irregolari, della loro criminalizzazione e dei maltrattamenti nel contesto dei controlli delle frontiere deve cessare.(...) Che cosa è rimasto oggi di quella severa denuncia della detenzione arbitraria, dei respingimenti collettivi in acque internazionali e dei ripetuti casi di omissione di soccorso? Nei mesi scorsi l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per Rifugiati (UNHCR ) aveva anche raccomandato che gli stati di transito si astenessero dal rinviare con la forza in Eritrea persone ai quali fosse stato negato asilo, per il pericolo che gli Eritrei respinti potessero essere sottoposti a detenzione e tortura. Eppure il 5 luglio l’ufficio di Ginevra dell’’UNHCR, quando era già in corso la deportazione degli eritrei da Misurata, si limitava ad auspicare soltanto il reinsediamento di coloro che non possono rientrare nel paese di origine e si trovano in paesi terzi che, come la Libia, non garantiscono il diritto di asilo ed il rispetto dei più elementari diritti dell’uomo, auspicando un maggiore impegno dei paesi europei nell’accoglienza delle persone ridislocate ( resettlement), mentre in un precedente comunicato dello scorso anno si osservava come “the number of individuals resettled from Libya remains low” non più di qualche decina all’anno. A differenza dello scorso anno, silenzio totale da parte dell’Ufficio UNHCR di Roma sulla deportazione violenta degli eritrei in un carcere militare. Un silenzio assordante mentre i profughi da Brak continuano a chiedere aiuto. E non certo per trovare un posto di lavoro. Si può immaginare che siano in corso trattative riservate per restituire almeno una parvenza di operatività all’Ufficio di Tripoli, almeno per i casi già esaminati, anche se la Libia continua a non sottomettersi a nessuna Convenzione internazionale che preveda un qualche riconoscimento effettivo del diritto di asilo. Ma con quali prospettive,viene da chiedersi, quando le pratiche dei respingimenti collettivi, delle retate indiscriminate e delle deportazioni di massa continuano, e soprattutto quando l’Italia e la Libia negano persino l’esistenza in Libia di richiedenti asilo e la stessa Libia non intende aderire alla Convenzione di Ginevra? A queste condizioni sarebbe forse meglio che l’Ufficio centrale di Ginevra dell’UNHCR denunci le gravi violazioni dei diritti dei rifugiati in Libia, in particolare per quanto riguarda gli eritrei e tutti coloro che non sono di fede musulmana, piuttosto che continuare a seguire una linea di basso profilo che non sembra più in grado di garantire una tutela effettiva alle migliaia di richiedenti asilo rinchiusi ed abusati nelle carceri e nei centri di detenzione di Gheddafi. Si può comunque rilevare lo stretto collegamento tra gli attacchi all’Alto Commissariato portati avanti da Maroni e La Russa lo scorso anno, dopo la denuncia dei respingimenti collettivi di richiedenti asilo in acque internazionali effettuati da mezzi della Guardia di Finanza, ed adesso la “temporanea” chiusura degli uffici UNHCR a Tripoli, voluta dai libici perchè l’UNHCR, assistendo i richiedenti asilo avrebbe posto in essere “attività illegali”. Si tratta di fatti incontrovertibili che dimostrano la perfetta “sinergia” tra il governo italiano e quello libico nel negare persino l’esistenza di richiedenti asilo e dunque nel cancellare, non solo in Libia, ma anche nel Mediterraneo ed in Italia, quel poco che rimane del diritto di asilo, un diritto fondamentale della persona affermato, non solo dalla Convenzione di Ginevra del 1951 e dalle direttive comunitarie, ma anche dall’art. 10 della Costituzione italiana. L’Unione Europea dovrebbe adottare sanzioni per la violazione dei principi di libertà e non respingimento affermati nella carta dei Diritti fondamentali, e la Corte Europea dei diritti dell’Uomo dovrebbe finalmente condannare l’Italia per i respingimenti collettivi effettuati lo scorso anno a partire dal 6 maggio. Sempre che nel frattempo i libici non riescano a fare scomparire i ricorrenti, dando modo al governo italiano di chiedere la cancellazione della causa dal ruolo, come si è verificato altre volte in passato.

In Libia ancora ricatti e imbrogli contro gli eritrei

Mentre i mezzi di informazione italiani, con poche eccezioni, hanno steso una cortina di silenzio sulla sorte degli oltre 200 eritrei detenuti e abusati nel carcere di Brak, in Libia, una agenzia AFP chiarisce meglio la portata dell`accordo, un vero e proprio “patto leonino” che il governo libico, con la mediazione dell`OIM, avrebbe imposto a una parte dei detenuti, mentre circa un terzo sembra che ancora si rifiuti di sottoscrivere l`”accordo di regolarizzazione”, che secondo le autorità di quel paese “li sottrarrebbe alle bande di criminali” trafficanti ovviamente, e conterrebbe addirittura”misure per l`accoglienza e l`integrazione”. E` proprio il caso di dire, purtroppo, “ARBEIT MACHT FREI”, il lavoro rende liberi. Secondo l`accordo imposto dal governo libico a una parte degli Eritrei, che probabilmente avrebbe firmato qualsiasi pezzo di carta pur di lasciare il carcere militare di Brak nel quale vengono abusati da giorni,”l`ambasciata eritrea in Libia consegnerà dei documenti, e dunque identificherà, i detenuti” al fine di permettere “a quanti lo desiderano di insediarsi in Libia”. L`insediamento dovrebbe avvenire non certo per libera scelta delle persone ma esclusivamente all`interno di uno dei campi di lavoro socialmente utile che la Libia esibisce con orgoglio per dimostrare il carattere socialista del suo regime. Ma la sorte degli eritrei dispersi in questi campi e affidati alla rigida organizzazione dei tanti gerarchi libici appare segnata, e una volta considerati come migranti economici rimane ancora assai alto il rischio che alla prima occasione vengano espulsi nel paese d`origine, dove ad attenderli troverebbero carcere e torture. Il regime eritreo ha buona memoria. E` rimasto in ombra in questa soluzione il ruolo dell`Italia, che pure era stata sollecitata dal Commissario ai Diritti umani del Consiglio d`Europa ad un “chiarimento” con la Libia sulla vicenda della deportazione degli eritrei da Misurata a Brak. Come sono rimasti inascoltati i numerosi appelli per un ritrasferimento (resettlement) dei profughi dalla Libia in Italia, come già avvenuto negli anni passati, seppure in poche decine di casi. Il capo della missione OIM in Libia Laurence Hart ha dichiarato, sempre secondo l`AFP, che la soluzione è stata individuata dalle autorità libiche “per integrare gli immigrati eritrei in attività di lavoro socialmente utile, come è stato fatto in passato nel caso di altri immigrati somali”. Tutti dovrebbero sapere però la sorte di sfruttamento sistematico e di abusi quotidiani a danno dei somali e degli eritrei in Libia, come si ricava dai rapporti di Human Rights Watch e di Amnesty International. E come gli eritrei anche i somali avrebbero avuto, ed hanno diritto, ad ottenere tutti non solo un permesso di soggiorno per lavoro, magari in una condizione di grave sfruttamento, ma il riconoscimento dello status di protezione internazionale, e dunque della libera circolazione sotto la sorveglianza dell`Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Un ruolo di garanzia che cessa quando un migrante non è riconosciuto come rifugiato ma come un comune migrante economico, magari da fare rientrare nel paese di origine alla prima occasione. La soluzione adottata dal governo libico mette “fuori gioco” ancora una volta l`UNHCR che peraltro in Libia ha sempre avuto una limitata capacità di azione. La stessa agenzia riferisce poi la vera ragione della chiusura della piccola delegazione dell`UNHCR a Tripoli, che aveva riconosciuto lo status di rifugiato a 8.951 persone e ne aveva riconosciuto altre 3.689 come richiedenti asilo. Per il governo libico si trattava invece di “immigrati clandestini”, che “in nessun modo potevano essere considerati come rifugiati o richiedenti asilo” . Ecco perché all`inizio di giugno l`ufficio dell`UNHCR a Tripoli veniva chiuso, proprio perché, a detta delle autorità libiche, avrebbe posto in essere “attività illegali”. Adesso sembrerebbe che sia stata consentita la riapertura dell`ufficio, ma con un mandato limitato soltanto ai casi già trattati in passato. E poi, se tutti i potenziali richiedenti asilo sono considerati come migranti economici, che senso può avere la presenza dell`UNHCR a Tripoli? Una domanda alla quale dovrebbe fornire risposta anche l`Ufficio centrale dell`UNHCR a Ginevra, anche perché la Libia non ha ancora sottoscritto la Convenzione di Ginevra.. E` caduto intanto nel vuoto l`appello del Commissario ai diritti umani del Consiglio d`Europa Hammarberg che sollecitava l`Italia i ministri Maroni e Frattini a chiarire la situazione con la Libia ed a trasmettere informazioni allo stesso Consiglio d`Europa in merito alla vicenda degli eritrei arrestati in Libia, anche alla luce dei numerosi report di agenzie internazionali che indicavano tra i deportati eritrei trasferiti a Brak ed a rischio di ulteriore deportazione nel loro paese di origine, anche migranti che lo scorso anno “avevano cercato di raggiungere l`Italia per cercare di ottenere uno status di protezione internazionale” ed “erano stati respinti in Libia senza avere la possibilità di inoltrare la relativa domanda”. Probabilmente, come ha detto lo stesso Gheddafi in diverse occasioni, in particolare nel suo viaggio a Roma lo scorso anno, anche Maroni risponderà adesso al Consiglio d`Europa quanto affermato da Berlusconi lo scorso anno, che in Libia non esistono richiedenti asilo, che si tratta solo di migranti irregolari, anzi “clandestini”, e che dunque non ci sono problemi di violazione di norme internazionali. Questi i fatti, e le menzogne, come sta venendo fuori dalle numerose testimonianze che smentiscono Maroni e confermano che tra gli eritrei deportati a Brak ve ne sono parecchie decine che lo scorso anno l`Italia ha intercettato in acque internazionali, mentre cercavano di raggiungere l`Italia per chiedere asilo, e che ha riconsegnato alle motovedette italo-libiche, che li hanno poi ricondotti nei centri di detenzione come quello di Misurata. Persone che se avessero raggiunto un qualunque paese europeo avrebbero avrebbero avuto diritto al riconoscimento di uno status di protezione internazionale. Ma sta succedendo qualcosa di ancora più grave che i comunicati ufficiali nascondono. La circostanza che la maggior parte degli eritrei trasferiti da Misurata a Brak si stia rivolgendo (meglio, sia stata costretta con la forza a rivolgersi) al proprio consolato per il rilascio di documenti identificativi, e che questi documenti permetteranno l`inserimento in una “comune di lavoro”, come quelle presenti in Libia, uno degli ultimi baluardi evidentemente del socialismo ( e infatti in quel paese è vietata la proprietà privata della terra), comporta alcune conseguenze assai gravi, che alleggeriscono le responsabilità dei governi e costituiscono la premessa per la dispersione dei duecento rifugiati eritrei, declassati adesso a semplici migranti economici, che il “magnanime” governo libico accetterebbe di “regolarizzare”. La identificazione di queste persone da parte del governo eritreo le rende ricattabili a vita, anche per le “attenzioni” che questo governo riserva a madri, mogli, figlie e sorelle di quanti tentano la via della fuga all`estero in cerca di asilo. Inoltre avere accettato, meglio essere stati costretti dai libici, con le violenze subite da giorni, a sottoscrivere un “accordo di integrazione” fissa a tempo indeterminato gli eritrei nella comune di lavoro nella quale verranno assegnati,ed impedisce loro qualsiasi futuro riconoscimento dello status di rifugiato, sia per i ricatti che potrebbero subire sui loro parenti in Eritrea, sia soprattutto perché una volta qualificati come migranti economici, e dopo avere chiesto “protezione”, attraverso la richiesta dei documenti identificativi, alla loro rappresentanza diplomatica in Libia, potrebbe ritenersi venuta meno la ragione per riconoscere loro, anche da parte dell`UNHCR, lo status di protezione internazionale. Un trabocchetto in uso in Italia fino a qualche anno fa, quando ancora non era entrata in vigore la normativa comunitaria attuata con il decreto legislativo n.25 del 2008, consisteva nel chiedere e verbalizzare alle persone appena sbarcate se volessero lavorare in Italia. Tutti naturalmente rispondevano affermativamente, e tanto bastava alle forze di polizia per respingere immediatamente e ritenere infondata la domanda di protezione internazionale, con la successiva adozione di provvedimenti di espulsione o di “respingimento differito”. Un “trucchetto” che il d.lgs n.25 del 2008 ha in qualche modo ridimensionato, togliendo alla polizia di frontiera qualunque potere discrezionale nell`esame della domanda di asilo che adesso è di pertinenza esclusiva della competente commissione territoriale. Ma evidentemente la “formazione congiunta” italo-libica produce i suoi frutti ed ecco che adesso la polizia libica, e il governo che la dirige, hanno imparato lo stesso “trucchetto” che anni fa si praticava in Italia, e in certi casi, come alle frontiere portuali dell`Adriatico, si continua a praticare ancora oggi per impedire ai potenziali richiedenti asilo l`accesso alla procedura. Per negare tutela e riconoscimento ai potenziali richiedenti asilo basta considerarli e trattarli come “migranti economici”, e dunque “clandestini”, se tentano di accedere al territorio senza i necessari documenti di ingresso e soggiorno. Quello che prima si faceva in Italia, a Lampedusa, adesso si fa in Libia, con l`aggravante che le persone vengono trattenute in condizioni disumane, esposti a continui abusi, cosa che capitava e capita anche in Italia, ma certamente non ai livelli di “raffinatezza” della polizia libica. La scelta di passare per migranti economici, e dunque di “regolarizzarsi” per andare a lavorare come schiavi, potrebbe dunque apparire per gli eritrei di Brak l`unica via per porre fine a giorni interminabili di torture e soprusi di ogni genere. E chissà che fine faranno quelli che non firmeranno questi “accordi di integrazione”, e i tanti che sono stati feriti e che vengono ancora picchiati se solo chiedono di essere curati. L`accordo di “integrazione” e dunque la “regolarizzazione” forzata, con l`avvio degli eritrei ai “campi di lavoro socialmente utile”, ha altri importanti risvolti che certo faranno dormire sonni più tranquilli ai nostri ministri che da anni negano la presenza in Libia di richiedenti asilo e giustificano anche in questo modo i respingimenti collettivi in acque internazionali, praticati con tanto successo, prima dalle nostre unità navali, in particolare dalla Guardia di finanza, ed adesso subappaltati ai mezzi navali donati ai libici. I quali non hanno certo problemi di doversi adeguare agli scomodi standard dell`Unione Europea e del Consiglio d`Europa in materia di diritti umani, e alla Convenzione di Ginevra, soprattutto per quanto concerne il divieto di respingimento (refoulement) affermato dall`art.33 della stessa Convenzione. E infatti, se di migranti economici si trattava, e dunque di irregolari, o di “clandestini”,che magari avrebbero attentato alla “sicurezza” degli italiani, anche nel caso di somali ed eritrei, come di nigeriani o togolesi, ben potevano giustificarsi sia le retate a terra che la polizia di Gheddafi ha intensificato proprio a partire dagli accordi con l`Italia, quanto i respingimenti collettivi in acque internazionali, senza alcuna identificazione, vietati dall`art.4 del protocollo 4 allegato alla Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell`auomo e dall`art.19 della Carta dei diritti fondamentali dell`Unione Europea, documenti che evidentemente sono carta straccia non solo per la Libia ma anche per l`Italia. Chiediamo ancora una volta che la Corte Europea dei diritti dell`uomo pronunci finalmente la sua sentenza per i respingimenti collettivi in Libia praticati il 6 e 7 maggio del 2009 dalla nave Bovienzo, altrimenti se passerà ancora del tempo, dopo fatti come la deportazione da Misurata, dei ricorrenti non ne resterà più traccia. Attendiamo adesso con angoscia crescente altre notizie sulla sorte dei profughi eritrei, anche dopo la loro “liberazione”, magari per conoscere le tappe della loro “integrazione” in Libia. E vorremmo anche avere notizie al più presto sulla sorte dei numerosi feriti di Brak e delle donne e dei bambini rimasti a Misurata, come delle migliaia di migranti che la Libia continua a trattenere nei propri centri di detenzione, ancora inaccessibili, a parte qualche “visita guidata”, usata come al solito per ingannare l`opinione pubblica internazionale, o almeno quanti si accontentano delle liturgie sulla sicurezza recitate dai ministri sulla pelle di persone esposte giorno per giorno a detenzione illegale e ogni sorta di trattamenti inumani o degradanti. Vorremmo anche che l`OIM e l`UNHCR chiarissero il senso della loro attuale presenza in Libia, magari facendo sapere quali garanzie sono previste perchè non venga coartata la scelta verso i cd.”rimpatri volontari” e quale sorte attende coloro che ancora si trovano in quel paese e sarebbero nelle condizioni di fare valere il diritto di asilo o un altro status di protezione internazionale in un qualunque paese che aderisca, a differenza della Libia, alla Convenzione di Ginevra. Fulvio Vassallo

domenica 11 luglio 2010

Gli eritrei prigionieri: «3 rapiti dalle guardie»

Stefano Liberti «Il governo italiano dovrebbe offrire immediatamente accoglienza ad almeno 11 eritrei che aveva respinto in precedenza in Libia». Con un comunicato molto duro nei confronti del nostro paese, anche Human Rights Watch (Hrw) entra nella vicenda dei 205 cittadini eritrei rinchiusi dal 30 giugno nel campo di detenzione di Braq, nel sud della Libia, dove sono stati condotti dalle autorità della Jamahiriya con un viaggio in camion-container durato circa 12 ore. L’organizzazione statunitense per la difesa dei diritti umani sottolinea come «l’Italia non ha mai dato a questi individui la possibilità di chiedere asilo e adesso questi corrono il rischio di ritrovarsi scaricati nel deserto o deportati in Eritrea». Hrw entra poi nel merito del presunto accordo siglato mercoledì per la liberazione dei 205 ragazzi, che prevederebbe un permesso di residenza e un impiego in un programma di lavori socialmente utili in Libia in cambio dell’identificazione. Un accordo che, come già scritto da questo giornale, non è stato in realtà mai concluso, semplicemente perché nessuno ha mai interpellato in proposito i cittadini eritrei rinchiusi a Braq. «Il governo eritreo considera coloro che scappano dal paese come dei traditori. Che la Libia richieda loro di fornire al governo da cui sono scappati le proprie generalità, dimostra che sono in pericolo anche in Libia». Negli ultimi giorni, il governo italiano ha espresso soddisfazione per il presunto accordo raggiunto, sottolineando come 140 detenuti avrebbero già firmato i moduli richiesti. La cifra è stata fornita dall’ufficio di Tripoli dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), che ha avuto un ruolo di supervisione nei negoziati tra diplomatici eritrei e funzionari libici. Come spiegano gli stessi detenuti di Braq, che hanno deciso in blocco di rifiutare l’offerta libica (peraltro mai avanzata ufficialmente), «140 è il numero delle persone che avevano firmato i moduli sotto minaccia quando erano nel campo di Misratah». È stata proprio la richiesta di firmare i formulari in tigrino (la lingua che si parla in Eritrea) a scatenare le resistenze dei richiedenti asilo e a suscitare la violenta reazione libica, con la deportazione di massa nel campo in mezzo al Sahara, in vista di una possibile rimpatrio nel paese del Corno d’Africa. Non tutti i 140 che hanno riempito i formulari sono adesso a Braq. Alcuni sono rimasti a Misratah, altri sono fuggiti dal campo durante i tumulti. «Una novantina sono qui tra noi. Ma hanno firmato sotto minaccia: non lo hanno fatto volontariamente», racconta un portavoce al telefono. Anche su questo punto, Human rights watch punta il dito contro Tripoli. L’organizzazione denuncia che «le autorità libiche stanno usando mezzi durissimi sui detenuti per costringerli a firmare i moduli. Il 7 luglio, un gruppo rimastro a Misratah, composto da 31 uomini, 13 donne e 7 bambini, ha detto di essere stato picchiato dopo aver rifiutato nuovamente di riempire i moduli». A Braq nessuno ha ancora chiesto ai 205 reclusi di riempire i formulari, anche se stanno accadendo altri episodi inquietanti. Ieri mattina, tre ragazzi sono stati chiamati per nome e prelevati dalle guardie. «Non abbiamo più saputo niente di loro», racconta al telefono uno dei detenuti. «Temiamo che possano avergli fatto male». I tre desaparecidos si aggiungono ad altri due che sono stati prelevati venerdì scorso dalle guardie e da allora non hanno più fatto ritorno. Sono quindi 200 i detenuti rinchiusi nelle celle di Braq e 5 «gli scomparsi». Sul fronte italiano, si segnala la risposta del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a una lettera-appello inviatagli dal Consiglio italiano per i rifugiati (Cir) la settimana scorsa. «Il capo dello Stato - ha detto il direttore del Cir Christopher Hein - afferma che la vicenda continuerà a essere seguita con la dovuta urgenza, nell'auspicio che possano essere rapidamente chiarite le ragioni che hanno determinato la richiesta di aiuto dei rifugiati eritrei e che sia fatta luce sulle condizioni della loro permanenza presso i campi profughi della Libia».

venerdì 9 luglio 2010

ARBEIT MACHT FREI 2 - IN LIBIA ANCORA RICATTI E IMBROGLI CONTRO GLI ERITREI

Mentre i mezzi di informazione italiani, con l'eccezione dell'Unità, di Raitre e di pochi altri, hanno steso una cortina di silenzio sulla sorte degli oltre 200 eritrei detenuti e abusati nel carcere di Brak, in Libia, una agenzia AFP chiarisce meglio la portata dell'accordo, un vero e proprio “patto leonino” che il governo libico, con la mediazione dell'OIM, avrebbe imposto ad una parte dei detenuti, mentre circa un terzo sembra che ancora si rifiuti di sottoscrivere l'”accordo di regolarizzazione”, che secondo le autorità di quel paese “ li sottrarrebbe alle bande di criminali” trafficanti ovviamente, e conterrebbe addirittura”misure per l'accoglienza e l'integrazione”. E' proprio il caso di ripetere, purtroppo, “ARBEIT MACHT FREI”, il lavoro rende liberi. Secondo l'accordo imposto dal governo libico ad una parte degli Eritrei, che probabilmente avrebbe firmato qualsiasi pezzo di carta pur di lasciare il carcere militare di Brak nel quale vengono abusati da giorni,”l'ambasciata eritrea in Libia consegnerà dei documenti, e dunque identificherà, i detenuti” al fine di permettere “a quanti lo desiderano di insediarsi in Libia”. L'insediamento dovrebbe avvenire non certo per libera scelta delle persone ma esclusivamente all'interno di uno dei campi di lavoro socialmente utile che la Libia esibisce con orgoglio per dimostrare il carattere socialista del suo regime. Ma la sorte degli eritrei dispersi in questi campi ed affidati alla rigida organizzazione dei tanti gerarchi libici appare segnata, ed una volta considerati come migranti economici rimane ancora assai alto il rischio che alla prima occasione vengano espulsi nel paese d'origine, dove ad attenderli troverebbero carcere e torture. Il regime eritreo ha buona memoria. E' rimasto in ombra in questa soluzione il ruolo dell'Italia, che pure era stata sollecitata dal Commissario ai Diritti umani del Consiglio d'Europa ad un “chiarimento” con la Libia sulla vicenda della deportazione degli eritrei da Misurata a Brak.. Come sono rimasti inascoltati i numerosi appelli per un ritrasferimento (resettlement) dei profughi dalla Libia in Italia, come già avvenuto negli anni passati, seppure in poche decine di casi. Il capo della missione OIM in Libia Laurence Hart ha dichiarato, sempre secondo l'AFP, che la soluzione è stata individuata dalle autorità libiche “per integrare gli immigrati eritrei in attività di lavoro socialmente utile, come è stato fatto in passato nel caso di altri immigrati somali”. Tutti dovrebbero sapere però la sorte di sfruttamento sistematico e di abusi quotidiani a danno dei somali e degli eritrei in Libia, come si ricava dai rapporti di Human Rights Watch e di Amnesty International. E come gli eritrei anche i somali avrebbero avuto, ed hanno diritto, ad ottenere tutti non solo un permesso di soggiorno per lavoro, magari in una condizione di grave sfruttamento, ma il riconoscimento dello status di protezione internazionale, e dunque della libera circolazione sotto la sorveglianza dell'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Un ruolo di garanzia che cessa quando un migrante non è riconosciuto come rifugiato ma come un comune migrante economico, magari da fare rientrare nel paese di origine alla prima occasione. La soluzione adottata dal governo libico mette “fuori gioco” ancora una volta l'UNHCR che peraltro in Libia ha sempre avuto una limitata capacità di azione. La stessa agenzia riferisce poi la vera ragione della chiusura della piccola delegazione dell'UNHCR a Tripoli, che aveva riconosciuto lo status di rifugiato a 8.951 persone e ne aveva riconosciuto altre 3.689 come richiedenti asilo. Per il governo libico si trattava invece di “immigrati clandestini”, che “in nessun modo potevano essere considerati come rifugiati o richiedenti asilo” . Ecco perché all'inizio di giugno l'ufficio dell'UNHCR a Tripoli veniva chiuso, proprio perché, a detta delle autorità libiche, avrebbe posto in essere “attività illegali”. Adesso sembrerebbe che sia stata consentita la riapertura dell'ufficio, ma con un mandato limitato soltanto ai casi già trattati in passato. E poi, se tutti i potenziali richiedenti asilo sono considerati come migranti economici, che senso può avere la presenza dell'UNHCR a Tripoli? Una domanda alla quale dovrebbe fornire risposta anche l'Ufficio centrale dell'UNHCR a Ginevra, anche perché la Libia non ha ancora sottoscritto la Convenzione di Ginevra.. E' caduto intanto nel vuoto l'appello del Commissario ai diritti umani del Consiglio d'Europa Hammarberg che sollecitava l'Italia i ministri Maroni e Frattini a chiarire la situazione con la Libia ed a trasmettere informazioni allo stesso Consiglio d'Europa in merito alla vicenda degli eritrei arrestati in Libia, anche alla luce dei numerosi report di agenzie internazionali che indicavano tra i deportati eritrei trasferiti a Brak ed a rischio di ulteriore deportazione nel loro paese di origine, anche migranti che lo scorso anno “avevano cercato di raggiungere l'Italia per cercare di ottenere uno status di protezione internazionale” ed “erano stati respinti in Libia senza avere la possibilità di inoltrare la relativa domanda”. Probabilmente, come ha detto lo stesso Gheddafi in diverse occasioni, in particolare nel suo viaggio a Roma lo scorso anno, anche Maroni risponderà adesso al Consiglio d'Europa quanto affermato da Berlusconi lo scorso anno, che in Libia non esistono richiedenti asilo, che si tratta solo di migranti irregolari, anzi “clandestini”, e che dunque non ci sono problemi di violazione di norme internazionali. Questi i fatti, e le menzogne, come sta venendo fuori dalle numerose testimonianze che smentiscono Maroni e confermano che tra gli eritrei deportati a Brak ve ne sono parecchie decine che lo scorso anno l'Italia ha intercettato in acque internazionali, mentre cercavano di raggiungere l'Italia per chiedere asilo, e che ha riconsegnato alle motovedette italo-libiche, che li hanno poi ricondotti nei centri di detenzione come quello di Misurata. Persone che se avessero raggiunto un qualunque paese europeo avrebbero avrebbero avuto diritto al riconoscimento di uno status di protezione internazionale. Ma sta succedendo qualcosa di ancora più grave che i comunicati ufficiali nascondono. La circostanza che la maggior parte degli eritrei trasferiti da Misurata a Brak si stia rivolgendo ( meglio, sia stata costretta con la forza a rivolgersi) al proprio consolato per il rilascio di documenti identificativi, e che questi documenti permetteranno l'inserimento in una “comune di lavoro”, come quelle presenti in Libia, uno degli ultimi baluardi evidentemente del socialismo ( e infatti in quel paese è vietata la proprietà privata della terra), comporta alcune conseguenze assai gravi, che alleggeriscono le responsabilità dei governi e costituiscono la premessa per la dispersione dei duecento rifugiati eritrei, declassati adesso a semplici migranti economici, che il “magnanime” governo libico accetterebbe di “regolarizzare”. La identificazione di queste persone da parte del governo eritreo le rende ricattabili a vita, anche per le “attenzioni” che questo governo riserva a madri, mogli, figlie e sorelle di quanti tentano la via della fuga all'estero in cerca di asilo. Inoltre avere accettato, meglio essere stati costretti dai libici, con le violenze subite da giorni, a sottoscrivere un “accordo di integrazione” fissa a tempo indeterminato gli eritrei nella comune di lavoro nella quale verranno assegnati,ed impedisce loro qualsiasi futuro riconoscimento dello status di rifugiato, sia per i ricatti che potrebbero subire sui loro parenti in Eritrea, sia soprattutto perché una volta qualificati come migranti economici, e dopo avere chiesto “protezione”, attraverso la richiesta dei documenti identificativi, alla loro rappresentanza diplomatica in Libia, potrebbe ritenersi venuta meno la ragione per riconoscere loro, anche da parte dell'UNHCR, lo status di protezione internazionale. Un trabocchetto in uso in Italia fino a qualche anno fa, quando ancora non era entrata in vigore la normativa comunitaria attuata con il decreto legislativo n.25 del 2008, consisteva nel chiedere e verbalizzare alle persone appena sbarcate se volessero lavorare in Italia. Tutti naturalmente rispondevano affermativamente, e tanto bastava alle forze di polizia per respingere immediatamente e ritenere infondata la domanda di protezione internazionale, con la successiva adozione di provvedimenti di espulsione o di “respingimento differito”. Un “trucchetto” che il d.lgs n.25 del 2008 ha in qualche modo ridimensionato, togliendo alla polizia di frontiera qualunque potere discrezionale nell'esame della domanda di asilo che adesso è di pertinenza esclusiva della competente commissione territoriale. Ma evidentemente la “formazione congiunta” italo-libica produce i suoi frutti ed ecco che adesso la polizia libica, e il governo che la dirige, hanno imparato lo stesso “trucchetto” che anni fa si praticava in Italia, e in certi casi, come alle frontiere portuali dell'Adriatico, si continua a praticare ancora oggi per impedire ai potenziali richiedenti asilo l'accesso alla procedura. Per negare tutela e riconoscimento ai potenziali richiedenti asilo basta considerarli e trattarli come “migranti economici”, e dunque “clandestini”, se tentano di accedere al territorio senza i necessari documenti di ingresso e soggiorno. Quello che prima si faceva in Italia, a Lampedusa, adesso si fa in Libia, con l'aggravante che le persone vengono trattenute in condizioni disumane, esposti a continui abusi, cosa che capitava e capita anche in Italia, ma certamente non ai livelli di “raffinatezza” della polizia libica. La scelta di passare per migranti economici, e dunque di “regolarizzarsi” per andare a lavorare come schiavi, potrebbe dunque apparire per gli eritrei di Brak l'unica via per porre fine a giorni interminabili di torture e soprusi di ogni genere. E chissà che fine faranno quelli che non firmeranno questi “accordi di integrazione”, e i tanti che sono stati feriti e che vengono ancora picchiati se solo chiedono di essere curati. L'accordo di “integrazione” e dunque la “regolarizzazione” forzata, con l'avvio degli eritrei ai “campi di lavoro socialmente utile”, ha altri importanti risvolti che certo faranno dormire sonni più tranquilli ai nostri ministri che da anni negano la presenza in Libia di richiedenti asilo e giustificano anche in questo modo i respingimenti collettivi in acque internazionali, praticati con tanto successo, prima dalle nostre unità navali, in particolare dalla Guardia di finanza, ed adesso subappaltati ai mezzi navali donati ai libici. I quali non hanno certo problemi di doversi adeguare agli scomodi standard dell'Unione Europea e del Consiglio d'Europa in materia di diritti umani, e alla Convenzione di Ginevra, soprattutto per quanto concerne il divieto di respingimento (refoulement) affermato dall'art.33 della stessa Convenzione. E infatti, se di migranti economici si trattava, e dunque di irregolari, o di “clandestini”,che magari avrebbero attentato alla “sicurezza” degli italiani, anche nel caso di somali ed eritrei, come di nigeriani o togolesi, ben potevano giustificarsi sia le retate a terra che la polizia di Gheddafi ha intensificato proprio a partire dagli accordi con l'Italia, quanto i respingimenti collettivi in acque internazionali, senza alcuna identificazione, vietati dall'art.4 del protocollo 4 allegato alla Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell'auomo e dall'art.19 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, documenti che evidentemente sono carta straccia non solo per la Libia ma anche per l'Italia. Chiediamo ancora una volta che la Corte Europea dei diritti dell'uomo pronunci finalmente la sua sentenza per i respingimenti collettivi in Libia praticati il 6 e 7 maggio del 2009 dalla nave Bovienzo, altrimenti se passerà ancora del tempo, dopo fatti come la deportazione da Misurata, dei ricorrenti non ne resterà più traccia. Attendiamo adesso con angoscia crescente altre notizie sulla sorte dei profughi eritrei, anche dopo la loro “liberazione”, magari per conoscere le tappe della loro “integrazione” in Libia. E vorremmo anche avere notizie al più presto sulla sorte dei numerosi feriti di Brak e delle donne e dei bambini rimasti a Misurata, come delle migliaia di migranti che la Libia continua a trattenere nei propri centri di detenzione, ancora inaccessibili, a parte qualche “visita guidata”, usata come al solito per ingannare l'opinione pubblica internazionale, o almeno quanti si accontentano delle liturgie sulla sicurezza recitate dai ministri sulla pelle di persone esposte giorno per giorno a detenzione illegale e ogni sorta di trattamenti inumani o degradanti. Vorremmo anche che l'OIM e l'UNHCR chiarissero il senso della loro attuale presenza in Libia, magari facendo sapere quali garanzie sono previste perchè non venga coartata la scelta verso i cd.”rimpatri volontari” e quale sorte attende coloro che ancora si trovano in quel paese e sarebbero nelle condizioni di fare valere il diritto di asilo o un altro status di protezione internazionale in un qualunque paese che aderisca, a differenza della Libia, alla Convenzione di Ginevra. Fulvio Vassallo Paleologo Università di Palermo