domenica 31 ottobre 2010

Somaliland, un modello da seguire?

di Matteo Guglielmo RUBRICA GEES, CORNO D'AFRICA. Luca Ciabarri, professore di antropologia politica presso l’università di Pavia, spiega le potenzialità e l’evoluzione del Somaliland nel contesto geopolitico regionale. Nello stallo politico della Somalia a parlare sono ancora le armi. A Mogadiscio si continua a combattere, e anche se l’Unione Africana (Ua) ha aumentato il numero del contingente Amisom, che dovrebbe a breve passare a ottomila unità, la fragilità delle Istituzioni federali di transizione (Ift) rende ancora incerto il futuro delle regioni centromeridionali del paese. Mohamed Abdullahi Mohamed, il nuovo primo ministro nominato dal presidente Sheikh Sharif in sostituzione di Abdirashid Ali Sharmarke, dimessosi il 21 settembre, è chiamato a rispondere ad almeno due sfide. La prima riguarda proprio lo stato delle Ift, su cui il nuovo premier dovrà lavorare intensamente per rimettere assieme i cocci lasciati dall’esperienza Sharmarke. La seconda sfida è invece riconducibile all’ancora precario stato di sicurezza della capitale. Abdullahi, che ha lavorato per il ministero degli Esteri somalo fino al 1991 prima di trasferirsi definitivamente negli Usa, avrebbe dichiarato di essere disposto al dialogo con quei gruppi di insorti pronti a collaborare. Se appare ancora prematuro sbilanciarsi sulle effettive capacità del nuovo premier - che a differenza del predecessore appartiene al clan Marehan (Darod) - qualcosa sembra muoversi sul fronte internazionale, e in particolare negli Stati Uniti. Probabilmente scoraggiata dalla scarsa tenuta delle Ift, Washington sarebbe pronta a ripartire dagli esempi più virtuosi: Somaliland e Puntland. Il 24 settembre il segretario di Stato per gli Affari Africani Johnnie Carson dal Palazzo di Vetro ha annunciato che gli Stati Uniti collaboreranno in modo più intenso con i governi di Garowe ed Hargeisa. La speranza della Casa Bianca è quella di costruire un vero fronte anti-islamista, facendo del Somaliland e del Puntland i due bastioni di contenimento alle forze di al-Shabaab, colpite nell’ultimo periodo da un pericoloso processo di frammentazione interna. Il Somaliland attende da tempo il riconoscimento internazionale, che nonostante le dichiarazioni di apprezzamento di Carson non sembra – almeno nel breve periodo – un obiettivo di facile portata. Dopo le elezioni presidenziali del 26 giugno scorso la Repubblica del Somaliland, autoproclamatasi indipendente nel 1991, ha dimostrato di aver raggiunto un ottimo grado di stabilità e di maturazione politica, anche se permangono fattori di debolezza. Luca Ciabarri, professore di antropologia politica presso l’università di Pavia e autore del libro “Dopo lo Stato: storia e antropologia della ricomposizione sociale nella Somalia settentrionale”, può aiutarci a comprendere quali siano oggi le potenzialità del Somaliland, anche alla luce dell'esito delle ultime elezioni, cui lo stesso autore ha assistito in qualità di osservatore. Cominciando proprio dalle ultime elezioni, quali sono state le novità e quali gli eventuali fattori di criticità? Gli osservatori pensavano che gli equilibri politici fossero cambiati a favore dell’opposizione, ma dubitavano della capacità delle istituzioni di registrare il cambiamento e temevano resistenze da parte del blocco al potere. Alla fine il Somaliland ha mostrato ancora la sua peculiarità: l’opposizione ha vinto anche nelle urne ed il presidente uscente se n’è andato senza eccepire. Potrebbero esserci aspettative eccessive verso il nuovo presidente: il suo predecessore ha fallito non solo per errori personali, ma anche per limiti strutturali. Cos’è che fa del Somaliland uno Stato a tutti gli effetti? E su cosa si fonda il sentimento di unità dei suoi cittadini? La legittimità popolare verso la nuova comunità politica, fondata sulla memoria collettiva legata alla repressione subita nel corso degli anni Ottanta per mano del regime di Siad Barre e alla conseguente dislocazione forzata nei campi rifugiati in Etiopia, e l’implicita condanna popolare verso ogni forma di violenza da parte dello Stato ne sono gli elementi distintivi. Su questo è stato costruito un progetto politico fondato su una cornice istituzionale e una cultura politica che fonde la tradizione assembleare della politica somala con istituzioni di stampo occidentale e un progetto politico-economico che vuole trarre vantaggio dalla posizione geopolitica del Somaliland, interfaccia tra il mare e gli altipiani etiopici. Come vede il Somaliland ciò che sta succedendo nelle regioni meridionali? E quali sono i fattori che hanno caratterizzato le relazioni tra le “due Somalie” dopo la caduta di Siad Barre? Il rapporto con il sud è piuttosto complesso ma a priori non vi è alcuna preclusione, a patto che non venga messa in discussione l’indipendenza politica del Somaliland. C’è empatia per le sofferenze della popolazione: dopo l’invasione etiopica di Mogadiscio le città del Somaliland hanno accolto molti sfollati. Questa stessa instabilità tuttavia è l’elemento che continua a frenare i rapporti tra le “due Somalie”: il Somaliland si guarda bene dal lasciarsi coinvolgere nella politica confusa e destabilizzante delle regioni meridionali. Un ostacolo è l’assenza in questi anni di un vero dibattito pubblico sulle responsabilità politiche nel corso della dittatura di Barre, capace di ristabilire solidi rapporti tra i vari gruppi somali. Ma questo vale tanto per il Somaliland quanto per gli altri territori somali. I rapporti con l’Etiopia sono sempre stati cruciali, soprattutto durante gli anni di lotta contro le forze di Siad Barre. Che posizione occupa il Somaliland nel contesto regionale? Sono rapporti molto stretti, anche se non molto trasparenti. C’è collaborazione per la repressione interna di forze dell’Islam radicale e per gli scambi commerciali (per l’Etiopia è essenziale mantenersi aperta la via verso il mare, anche attraverso il porto di Berbera), anche se questi seguono più la via informale che quella ufficiale. È difficile per il Somaliland mantenere autonomia di fronte a un paese così ingombrante come l’Etiopia. L’elaborazione politica interna ha tuttavia accantonato l’idea dell’Etiopia come paese nemico, costata tanto cara al nord poiché esso costituiva la vera linea di fronte nel corso di tutti i conflitti tra Etiopia e Somalia. Da questo punto in realtà dovrebbe partire ogni rinnovamento del pensiero nazionalista somalo. È vero che ad Hargeisa sta crescendo una rete imprenditoriale con legami molto forti sia con le comunità della diaspora che con alcuni paesi arabi? I commercianti sono una delle spine dorsali della stabilità economica e politica del Somaliland. Hargeisa è essenzialmente un nodo all’interno di una rete che collega i percorsi della diaspora somala e dell’asilo internazionale alle reti commerciali che, dopo i paesi arabi, si estendono ora verso l’Estremo Oriente, Bangkok e la Cina. Come vede il futuro del paese? Mi preoccupa il sostegno unilaterale da parte degli Stati Uniti: certe esclusive vicinanze internazionali possono essere più una iattura che un beneficio, oltre che fonte di delegittimazione interna. L’Europa, compresa l’Italia, si nasconde dietro un dito dicendo che i primi a muoversi in fatto di relazioni politiche ufficiali devono essere i paesi africani attraverso l’Ua, ma dovrebbe fare molto di più. Tra riconoscimento e non riconoscimento ci sono molte possibilità intermedie. Matteo Guglielmo è dottorando in Sistemi Politici dell’Africa all’Università degli studi “L’Orientale” di Napoli, autore del volume Somalia, le ragioni storiche del conflitto, ed. Altravista, 2008. (21/10/2010)

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