mercoledì 28 novembre 2007

Testimonianza di uno dei Missionari espulsi

Eritrea: guerra e fame stanno distruggendo una intera popolazione di Angela Ambrogetti/ 27/11/2007 Padre Javier è uno dei missionari espulsi dal governo eritreo. A Korazym.org, la sua esperienza tra la gente Kunama, tribù poverissima che vive al confine con l'Etiopia ancora legata alle religioni tradizionali. Una missione che non piace al governo. La scorsa settimana sono rientrati in Italia i missionari cattolici, a cui il governo di Asmara non ha rinnovato i permessi di soggiorno. Ufficialmente i motivi sono legati al rifiuto dei religiosi a svolgere il servizio militare e al divieto di permanenza oltre i due anni per le Organizzazioni non governative. Di fatto la Chiesa è sottoposta a forti pressioni e si teme per la stessa sorte per le istituzioni cattoliche. Padre Javier è un comboniano messicano, uno dei tredici espulsi. Il suo sogno è sempre stato africano? "Sono stato in Eritrea 10 anni. Il mio sogno è sempre stato di andare in un paese africano per evangelizzare ed annunciare la parola di Dio. Mi sono trovato in un paese cristiano da tanti anni, molto prima del Messico, ma ci sono dei gruppi non ancora evangelizzati e seguono le religioni tradizionali, e fra questi gruppi, i kunama. E' con loro che svolgiamo il nostro lavoro". Come sono stati questi ultimi anni di guerra e di carestia? "Pochi mesi dopo il mio arrivo è scoppiata la guerra per l'indipendenza dall'Etiopia, e questo ha complicato la nostra attività perché i bisogni della gente erano cambiati. C'era bisogno di cibo, medicinali, educazione. Una situazione di emergenza nella quale noi abbiamo dovuto far fronte ai bisogni primari e ci siamo trovati a dover fare tanti lavori di sviluppo e promozione umana. Non tanto quindi una predicazione della parola di Dio. Un po' alla volta mi sono reso conto che proprio questo era l'annuncio della Buona Novella. Non solo la predicazione, le parole, ma i fatti perché la gente ha necessità materiali". Una guerra quasi civile tra popoli fratelli… "Tra Eritrea ed Etiopia c'è stata una guerra di indipendenza nel 1993, ma la situazione non si è mai stabilizzata, e la guerra è proseguita per la definizione dei confini. Poi si è aggiunta la siccità. Il paese è molto secco, una savana e la gente vive di pastorizia, agricoltura stagionale. Quando manca l'acqua manca tutto. La gente non ha altri mezzi di sostentamento. Con la guerra e l'arruolamento obbligatorio, gli uomini sono tutti dovuti andare al fronte e non è rimasto nessuno a lavorare nei campi. Questa è l'origine di tutti i problemi. La gente si impoverisce perché gli uomini non possono mantenere la famiglia". Cosa fate e in che zona? "Siamo nella zona del basso piano dell'Eritrea verso il confine con il Sudan, una regione dove la maggioranza è islamica, e c'è poi questa tribù che segue la religione tradizionale i Kunama. E' una regione arida ed ostile. L'evangelizzazione è recente ed è stata iniziata dai frati cappuccini 90 anni fa. Poi è stata interrotta dalla guerra che è durata 30 anni, e pochi anni fa noi comboniani abbiamo ricominciato il lavoro. La diocesi è di recente istituzione ed è sta eretta nel 1995. La maggioranza dei cristiani è copto ortodossa, poi ci sono i cattolici ma sempre di rito copto. Da tanti anni la Chiesa cattolica cerca di entrare in Etiopia ed Eritrea. Ci sono stati problemi perché i copti non vedono molto bene la Chiesa cattolica, perché la collegano al periodo coloniale". Allora, qual è il vostro lavoro? "Lavoriamo soprattutto per la prima evangelizzazione tra i Kunama. Un gruppo etnico piccolissimo, la maggior parte di loro vive in una area remota ai confini con l'Etiopia e la guerra li ha costretti a scappare e vivere in uno stato di continua emergenza. Hanno bisogno di tutto". Siete dovuti tornare in Europa perché i vostri visti non sono stati rinnovati, ma che speranze avete di rientrare in Eritrea? "Per il momento non c'è nessuna possibilità perché il governo ha un programma di controllo della Chiesa. Questo è solo un primo passo e le cose possono solo peggiorare. Forse con un cambio di politica ci sarà qualche speranza. Noi tutti speriamo di tornare perché la gente ci vuole bene, ed ha tanto bisogno e abbiamo visto che è davvero un posto in cui il Signore ci chiama ed è molto necessario il lavoro pastorale e sociale. I cattolici sono solo il due per cento. Molte famiglie hanno preti e suore, ma hanno già molte attività ed è difficile che possano curare le missioni. In Eritrea poi ci sono nove culture diverse e spesso ci sono difficoltà tra una etnia e l'altra. Ad esempio un Kunama difficilmente accetta un prete o una suora della tribù tigrina. E questo rende tutto più difficile. Per questo è più facile per noi stranieri". A proposito di stranieri che ricordo hanno degli italiani? "Una cosa curiosa è che l'italiano è la seconda lingua più parlata nel paese. E anche per noi missionari nei villaggi più remoti si trova sempre qualcuno che sa l'italiano e questo è un bell'aiuto perché possiamo più facilmente entrare in contatto con loro e imparare la loro lingua. I Kunama ricordano con affetto gli italiani che li hanno molto aiutati. Erano attaccati da molti altri gruppi e rischiavano di sparire, ma gli italiani li hanno protetti, e ora il ricordo è bellissimo". Javier ora cosa farà? "Per ora torno in Messico, ma il mio sogno è tornare in Africa al più presto.

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